17 Febbraio 2021
Debora Fino, presidente della Fondazione per il Suolo, è docente di Ingegneria Chimica al Politecnico di Torino.

Debora Fino, presidente di Re Soil Foundation: l’importanza di avere un suolo in salute è ancora troppo sottovalutata. Le competenze dei tecnici possono ispirare politiche lungimiranti che contrastino degrado e desertificazione

di Emanuele Isonio

 

“Abbiamo imparato nei decenni a prenderci cura dell’aria e dell’acqua con precise norme e tecnologie che prevengono e abbattono l’inquinamento. Per il suolo molta strada deve essere percorsa, specialmente dal punto di vista normativo”. Debora Fino è una docente (di ingegneria chimica) del Politecnico di Torino. Il suo ateneo, insieme all’università di Bologna, a Coldiretti e a Novamont hanno creato da qualche mese la Re Soil Foundation. E proprio lei, da pochi giorni, è stata scelta per guidarla.

Professoressa Fino, perché avete deciso di creare una Fondazione per il Suolo?

Re-Soil Foundation nasce per fornire al legislatore un supporto competente per impostare politiche di tutela della fertilità dei nostri suoli, per preservarla. Questo comporta necessariamente che parte del carbonio che “ricicliamo”, dai rifiuti organici e dallo stesso sequestro e riconversione della CO2 dall’atmosfera, deve essere resistuito ai terreni, pena il loro degrado. Tale degrado in questo frangente storico è accelerato dai cambiamenti climatici che portano desertificazione.

La Ue ha inserito proprio il suolo tra le 5 mission incluse nel programma Horizon Europe. La Fondazione Re Soil come declinerà gli obiettivi di questa missione a livello italiano?

La Fondazione certamente potrà svolgere un ruolo di catalizzatore per quelle competenze italiane che sono in grado di sviluppare nuove tecnologie per la tutela dei suoli in risposta alle future call europee del Green New Deal. Allo stesso modo potranno essere valorizzati molti siti di grande interesse nel nostro Paese come teatri di sperimentazione di queste tecnologie. Pensiamo ad esempio al contrasto della desertificazione in aree come la Sicilia, oppure al continuo miglioramento della qualità dei suoli in zone di produzioni agroalimentari di grande qualità.

Avere un suolo “qualificato” su concrete basi scientifiche potrà diventare un plus sotto il profilo commerciale.

Per riuscirci, pensa che sia necessaria un’attività di sensibilizzazione sul suolo per indirizzare le politiche più corrette? E a quali livelli?

I livelli sono molteplici. Dal ministero dell’Agricoltura al neonato ministero della Transizione ecologica, a quelle locali promosse dalle Regioni. Oggi la percezione di quella che è l’importanza di un suolo per la produzione in qualità di un prodotto è scarsa. Ancora minore è la consapevolezza del fatto che se un suolo viene trascurato, negli anni si deteriora irreversibilmente. Occorre previdenza e lungimiranza che proprio una azione pre-normativa illuminata può ispirare a chi è tenuto a legiferare e stabilire politiche di indirizzo.

Quanto è sviluppata, in base alla sua percezione, la sensibilità sull’importanza del tema suolo tra opinione pubblica, stakeholder e amministratori pubblici?

Come le dicevo, molto meno di quanto oramai abbiamo capito l’importanza della tutela dell’aria che respiriamo e dell’acqua che beviamo. Forse perché in questi casi c’è una diretta correlazione tra la nostra salute e quella di questi fondamentali contesti. Nelle città più inquinate si stimano in svariate migliaia i morti legati all’inquinamento dell’aria. In questo campo norme precise hanno portato o stanno portando a veri e propri cambi di paradigma nella società: pensiamo alla mobilità sostenibile o all’uso di fonti energetiche rinnovabili.

Al di là del suo nuovo ruolo nella Re Soil Foundation lei è soprattutto una docente del Politecnico di Torino: la tecnologia può dare una mano per combattere la battaglia in favore del suolo?

Certamente, la tecnologia oggigiorno è sempre fondamentale. In questo settore amo definirla un acceleratore degli effetti di meccanismi naturali. Certamente lo sviluppo di bioplastiche che combinino ottime resistenze meccaniche a biodegradabilità in condizioni ambiente potrà essere di grande utilità. Questo favorirebbe la produzione di compost (ammendante agricolo ottenuto con processi biotecnologici da rifiuti organici) di grande qualità. D’altra parte i rifiuti organici o gli sfalci agricoli possono essere trattati termo-chimicamente così da generare al contempo combustibili rinnovabili e un residuo solido a base di carbone (noto come biochar) che può essere indirizzato ad uso di integratore della composizione dei suoli. Come sempre le tecnologie possono proporre svariati approcci che nei diversi contesti portano a scelte applicative diverse.

Quali sono le tecnologie più promettenti ed efficaci per recuperare la capacità di assorbimento della CO2 dei suoli?

Innanzitutto la fotosintesi è il meccanismo principe con cui la natura cattura questa molecola per convertirla in materia organica, che poi, almeno in quota parte deve essere lasciata nei suoli. D’altra parte, si può intervenire con molte tecnologie (chimiche, elettrochimiche, biologiche e non solo) per catturare e convertire l’anidride carbonica da fumi di combustione o altre correnti concentrate. Un libro che consiglio come lettura su questo tema è “Chimica Verde 2.0: Impariamo dalla natura come combattere il riscaldamento globale” di Guido Saracco edito da Zanichelli. Tratta delle tecnologie che sono sviluppate dalla sede torinese dell’Istituto Italiano di Tecnologia, un’eccellenza nel settore.

Come è messa l’Italia quanto a ricerche di tecnologie applicate al benessere dei suoli?

Se è vero che, dati ISPRA alla mano, il nostro Paese vede un quarto dei suoi suoli in degrado, è altresì vero che le risorse e le azioni intraprese per combattere attivamente questa minaccia sono nettamente in crescita. Negli ultimi due anni, l’Italia insieme a Portogallo, Ucraina e Turchia ha ricoperto il ruolo di pioniere nell’implementazione efficace delle Linee Guida Volontarie per la Gestione Sostenibile del Suolo (VGSSM) approvate e promosse dalla FAO nel 2016. Questo si è riflesso non solo ispirando iniziative proposte dai policymakers a livello nazionale e regionale, ma anche rendendo il nostro paese scenario di numerosissimi progetti.

I dati parlano chiaro: la branca inerente alla sostenibilità e la produttività dell’agricoltura dell’European Innovation Partnership (EIP-AGRI) riporta che sono stati più di 450 i finanziamenti in Italia in campo agricolo e selvicolturale finalizzati alla ricerca tecnologica ed alla creazione di gruppi operativi. Il networking fra di essi costituisce indubbiamente un elemento cardine per portare soluzioni efficaci. In parallelo, anche i programmi Life sponsorizzati dalla Commissione europea sono una strepitosa occasione per portare contributi significativi sul miglioramento della salute del suolo.

Ci sono best practice particolarmente significative?

Cito due esempi illustri “Made in Italy”: il primo è soil4life, un programma attualmente in corso finalizzato a introdurre attivamente le linee guida sopracitate per l’uso sostenibile del suolo. Il secondo è Life HelpSoil, un piano già concluso con successo, finalizzato all’applicazione dell’agricoltura conservativa. I suoi principi, basati su rotazione delle colture e lavorazioni minime del terreno, sono sicuramente un’ottima proposta di “best practice” per il futuro.