Il carbone vegetale noto come Biochar può migliorare il sequestro di carbonio e la fertilità dei terreni. Ma bisogna fare attenzione alle materie prime con cui è prodotto. E il suo uso su vasta scala è comunque impensabile e controproducente per l’ecosistema
di Stefania Cocco*, Dominique Serrani**, Valeria Cardelli***, Giuseppe Corti****
Ascolta “Il biochar è un’opportunità. Ma non è la cura per tutti i mali del suolo” su Spreaker.
Il Green Deal europeo prevede un piano di azione mirato a promuovere l‘uso efficiente delle risorse, passando a un’economia pulita e circolare, alla conservazione e al ripristino della biodiversità e alla riduzione dell’inquinamento. In questo contesto si impone la necessità di un uso attento del suolo, che rappresenta il fulcro dell’ambiente ma che è fortemente minacciato da riduzione del contenuto in carbonio organico, erosione, contaminazione, compattazione e acidificazione.
Come enfatizzato dalla Global Soil Partnership nel manuale Sustainable Soil Management, sono necessarie pratiche di gestione del suolo sostenibili e attente alla riserva di carbonio organico, cruciale nel mantenimento della sua fertilità. L’incorporazione di biochar nel suolo rappresenta una proposta green in grado di incrementare il contenuto di carbonio organico e la fertilità e, in certi casi, di ridurre la disponibilità di metalli pesanti. L’attenzione su questo prodotto merita approfondimenti.
Da che cosa deriva il biochar?
Il biochar, di aspetto simile al carbone, si produce per decomposizione termochimica (pirolisi) di materia organica, costituita principalmente da cellulosa, emicellulosa e lignina. Le proprietà di questo prodotto sono determinate dalla natura della materia prima (residui colturali, legname di scarto, scarti dell’industria agroalimentare, biomasse di recupero) e dalla durata e dalle temperature del processo di produzione. La tecnica tradizionale di produzione avviene a temperature > 300 °C per tempi variabili da pochi secondi a ore, così da ottenere biochar, bio-olio e miscele di gas (syngas). L’applicazione di microonde, la co-pirolisi e la pirolisi umida rappresentano soluzioni alternative pensate per migliorare le proprietà del prodotto finale e ridurre il rischio legato all’impiego di biomassa contaminata. I moderni processi industriali consentono lo sfruttamento economico del syngas per produrre energia elettrica e calore, rappresentando parte dell’introito della produzione di biochar.

Nel processo di pirolisi la materia viene riscaldata a basse temperature, si decompone e dà origine al prodotto finito. Immagine: dalla presentazione di David Chiaramonti, Ecomondo Digital Edition 2020
Si fa presto a dire biochar
L’interramento del biochar è suggerito per incrementarne il sequestro di carbonio e migliorare la fertilità fisica, chimica e biologica del suolo. Le evidenze sperimentali suggeriscono però di analizzare preventivamente sia il prodotto sia il suolo di destinazione. La variabilità della materia prima, del processo di pirolizzazione e il tipo di suolo influenzano infatti il comportamento del biochar interrato.
Ad esempio, sappiamo che i biochars prodotti con legno di latifoglie hanno pH più alcalini, più capacità di scambio cationico e più microporosità di quelli ottenuti con legno di conifere, i quali hanno un’elevata superficie specifica e basso contenuto in cenere. Il legno di latifoglie contiene più lignina rispetto a quello di conifere. Ciò conferisce al biochar una maggiore concentrazione di gruppi aromatici, responsabili di una sua maggior recalcitranza alla degradazione una volta incorporato nel suolo. La recalcitranza favorisce la conservazione dello stock di carbonio, ma ostacola l’attività microbica ed enzimatica.
Più interessanti sono i biochars ottenuti da sottoprodotti di colture monocotiledoni quali mais, riso, frumento e canna da zucchero, meno ricchi di gruppi aromatici e più dotati di elementi nutritivi. Strategiche si sono rivelate le somministrazioni di biochars derivati da mais e pula di riso addizionate a suoli acidi (Oxisols) del Mozambico assieme a fertilizzante NPK.
Grandi quantità per avere miglioramenti sensibili
L’azione sinergica di biochar e fertilizzante si è rivelata assai migliorativa della fertilità di questi suoli. Le rese di colture tradizionali come fagiolo e mais sono notevolmente aumentate rispetto al trattamento con solo biochar. Eppure, data la sua reazione alcalina e la presenza di cenere, proprio in suoli acidi il biochar dovrebbe trovare la sua più opportuna applicazione, favorendo un aumento del pH, della disponibilità di fosforo e, in generale, delle proprietà chimiche e biochimiche (attività enzimatiche). Purtroppo, i miglioramenti non sono sensibili se non si raggiungono percentuali di biochar nel suolo di almeno 1% nei primi 20 centimetri di spessore, corrispondenti approssimativamente a incorporazioni di 20 tonnellate per ettaro. Dosi maggiori aumentano il rischio di un’eccessiva fissazione di azoto tale da vanificare il risultato colturale.
Il rovescio della medaglia
L’uso di biochar non può essere comunque considerato la panacea dei mali del suolo, pena rischi per l’ecosistema. Infatti, limitandoci a considerare i suoli acidi (visti gli scarsi benefici osservati su suoli alcalini) come gli Oxisols (i suoli della fascia tropicale tra i meno fertili del pianeta), questi si estendono per circa 9,5 milioni di km2. Ammettendo che la metà sia coltivata (ma è molto di più), abbiamo una superficie di circa 500 milioni di ettari. La resa in biochar del materiale fresco varia dal 10/12 al 40/50%. Questo significa che, per portare all’1% di biochar i 20 cm superficiali dei soli Oxisols coltivati, avremmo bisogno di una quantità di materiale vegetale equivalente a quella fornita da 250-1200 milioni di ettari di foresta, equivalenti al 15-65% dell’intero patrimonio forestale tropicale. E questo non basterebbe a risolvere i problemi dei suoli acidi coltivati, dovendosi comunque aggiungere fertilizzanti.
Cifre astronomiche che rendono immediatamente conto, per quanto si sia ristretto il campo ai soli Oxisols, che il biochar non potrà mai essere una soluzione universale. Andrà invece destinato a piccole superfici, coadiuvato dall’aggiunta di fertilizzanti. Insomma, il biochar non è la “cura” che toglie ogni male al suolo. Spingere troppo su questa strada potrebbe anzi avere anche effetti deleteri. Primo tra tutti la competizione con il lasciare i residui vegetali al suolo, cosa che sicuramente aiuta l’attività e la diversificazione della microflora microbica più di ogni altro intervento.
Gli autori
* Stefania Cocco è professore associato di Pedologia, PhD in Geobotanica e Geomorfologia. Interessi di ricerca: genesi di suoli agrari, forestali, urbani e subacquei; suolo e cambio climatico; rizosfera; soluzioni ecologiche; mineralogia del suolo; erosione idrica; suoli di ambienti aridi; suoli alpini e artici; paleosuoli; Oxisols.
** Dominique Serrani è dottoranda in Pedologia. Studia gli effetti dello slash and burn sulla fertilità di suoli di sistema agroforestale in Mozambico. Titolare di assegno di ricerca sulla misura dell’erosione e sul monitoraggio della fertilità del suolo in ambienti collinari dell’Italia centrale.
*** Valeria Cardelli, PhD in pedologia. Collabora con università spagnole e americane per lo studio di suoli forestali e naturali, e sul reimpiego di materiali di scarto in agricoltura. Titolare di assegno di ricerca su riuso sostenibile di scarti di estrazione di idrocarburi.
**** Giuseppe Corti è docente all’università Politecnica delle Marche e presidente della Società Italiana di Pedologia.