Il caso new soil, a Torino, apre prospettive molto ampie per le città italiane ed europee. Procedure più snelle possono accelerare il processo di recupero della terra di scavo. E il calo dei costi premia la circolarità.
di Matteo Cavallito
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Per la città di Torino è già una buona pratica molto promettente. Per le altre realtà urbane potrebbe diventare presto una nuova opportunità. Il new soil, ovvero la terra fertile rigenerata attraverso un processo circolare nell’ambito del progetto europeo proGIreg, vive i suoi primi momenti di gloria. Ma il suo impiego su vasta scala, in futuro, potrebbe rappresentare un’autentica svolta. Ne sono convinti i protagonisti del progetto, che, oltre al Comune, coinvolge tra gli altri Environment Park, Dual Srl, il Politecnico e l’Università degli Studi di Torino, Acea Pinerolese e CCS Aosta. E lo suggeriscono tanto la logica quanto le cifre a disposizione. Parliamo di “grandi” numeri, ovviamente. Visto che l’origine del prodotto è legata a un’intuizione capace di scoperchiare, in tutti i sensi, un vero e proprio tesoro nascosto che non sarà mai soggetto a scarsità: l’onnipresente terreno di scavo. Ma andiamo con ordine.
Alla scoperta del new soil
Il new soil, spiegano i promotori, è “un substrato terroso artificiale, frutto della combinazione tra materiale di scarto e la sostanza organica derivante dal compostaggio di materiali vegetali e rifiuti umidi prodotti al Polo Ecologico Acea di Pinerolo”. Di fatto, si tratta di selezionare terreno urbano privo di contaminanti proveniente dai lavori di scavo in città. Per poi pulirlo e mescolarlo con il compost, alcuni biostimolanti e supporti inerti assorbenti. Queste operazioni vengono svolte da un’impresa specializzata: la Dual Srl.
“Quella che giace sotto l’asfalto è terra potenzialmente utile ma di per sé poco fertile”, spiega Federico Benenati, il geologo della stessa azienda specializzato in tutto ciò che concerne la movimentazione del materiale. “Per renderla tale è necessario ricorrere all’utilizzo di ammendanti; quello più ‘quotato’ e maggiormente disponibile allo stato attuale è il compost che anche in questo caso, ovviamente, può essere considerato un prodotto circolare. È Acea a fornire il compost Florawiva riciclando i prodotti di scarto delle potature. L’aggiunta di altri elementi, come le micorrize ad esempio, fa il resto”. Grazie a questo metodo, il capoluogo piemontese ha potuto così rigenerare il terreno del Parco Sangone, la prima area verde urbana europea caratterizzata dall’impiego esclusivo del “nuovo suolo”.

Il new soil nasce dalla combinazione tra materiale di scarto e la sostanza organica derivante dal compostaggio di materiali vegetali e rifiuti umidi. Immagine: Comune di Torino
Molteplici soluzioni
Il new soil, in ogni caso, non è un prodotto standard. “Uno degli aspetti più interessanti è che possiamo creare diverse tipologie di terreno a seconda delle necessità del cantiere o delle esigenze del progettista” prosegue Benenati. “Se necessario, come già accaduto, ad esempio, possiamo aggiungere un particolare tipo di zeolite: la chabasite. Si tratta di un minerale che favorisce l’assorbimento e il rilascio di nutrienti quando ce n’è più bisogno, ovvero nei momenti di siccità. Un terreno con queste caratteristiche si adatta molto bene all’irrigazione di sussistenza ed è particolarmente resiliente ai cambiamenti climatici”.
Da qualche tempo l’azienda ha creato una società ad hoc, la Dual Green, che si dedica allo sviluppo delle potenzialità del suolo, delle piante e degli arbusti coltivati. I progetti già completati includono parchi e aree verdi in città. L’idea per il futuro, è quella di impiegare il materiale rigenerato per le coperture delle discariche giunte a fine ciclo. Un nuovo progetto in tal senso, precisa Benenati, dovrebbe prendere il via a breve a Chivasso, nella cintura torinese.

L’aggiunta di un particolare tipo di zeolite, la chabasite, favorisce l’assorbimento e il rilascio di nutrienti nei periodi di siccità. Foto: Comune di Torino
Meno smaltimento, più rigenerazione
I vantaggi sono essenzialmente due. In primo luogo la possibilità di utilizzare solo materiali di recupero evitando così di sottrarre terra fertile alla campagna, come accade di norma quando le città si impegnano a creare o rigenerare i propri spazi verdi. In secondo luogo, la circolarità dell’operazione riduce le spese di smaltimento che negli ultimi anni, a causa della scarsa disponibilità di spazio, sono salite notevolmente. “I costi dello smaltimento sono aumentati perché, semplificando, non si sa più dove mettere il materiale di scarto” spiega ancora Benenati. “Il fatto è che se l’impresa riesce a differenziare gli scarti conferendoci materiale “pulito” ovvero scevro o contenente in minima parte elementi di origine antropica, ecco che siamo in grado di produrre terra rigenerata. E dallo smaltimento, che genera costi, si passa direttamente alla valorizzazione dello scarto”.
Nella UE gli scarti da costruzione valgono quasi mezzo miliardo di tonnellate all’anno
Difficile, ovviamente, avere numeri precisi allargando l’orizzonte per macro aree geografiche. Ma qualche dato è comunque disponibile. Nel 2011, una ricerca della Loughborough University di Londra rilevava come nell’Unione Europea si generassero all’epoca oltre 450 milioni di tonnellate di rifiuti da costruzione e demolizione all’anno, il terzo più grande flusso di scarto dopo quello prodotto dal settore minerario e da quello agricolo. Il 75% del materiale, notava ancora lo studio, finiva in discarica. Non è possibile valutare a quanto ammonti il volume di terra di scavo prodotto dalla costruzione di edifici e infrastrutture nel continente. Le cifre citate dall’indagine, in ogni caso, suggeriscono un ordine di grandezza verosimilmente enorme.
Torino apripista europea
Quel che è certo, inoltre, è che il progetto avviato nella città di Torino potrebbe essere applicato pressoché ovunque con effetti davvero significativi. “Le implicazioni sono davvero molto ampie”, spiega Paola Zitella, Responsabile area Chimica verde di Environment Park, uno dei partner del progetto. “Non è facile quantificare la disponibilità di terra di scavo su scala nazionale ma i numeri sono certamente considerevoli. La soluzione proposta, inoltre, risponde alle esigenze di recupero e circolarità legate alla tutela del suolo che rappresenta oggi una questione di interesse primario nell’Unione Europea”.
Dal punto di vista tecnico, prosegue, le problematiche appaiono limitate. A pesare, piuttosto, “sono gli scogli burocratici che sono ancora rilevanti”. Per questo motivo, aggiunge, “stiamo lavorando insieme ad ARPA ,Comune di Torino, Città Metropolitana e Regione Piemonte per rendere più snello il processo autorizzativo. Di norma il via libera a un materiale nuovo può essere problematico. Il riconoscimento ufficiale del new soil e il suo inserimento nei capitolati, di conseguenza, rappresenterebbe una svolta”. In questo modo, i promotori del progetto, a cui collaborano anche la Fondazione Mirafiori e l’associazione non profit Orti Alti, con la partecipazione di Associazione Coefficiente Clorofilla e Miravolante, contano di estendere gli spazi verdi pubblici cittadini.
A guardare con attenzione al lavoro degli amministratori torinesi, infine, ci sono in primo luogo Zagabria e Dortmund, le altre città europee coinvolte nel progetto. Che, ad oggi, tuttavia, non hanno ancora avviato iniziative specifiche.