Quanto azoto possono tollerare le praterie? Lo rivela uno studio
Secondo una ricerca, applicare più di 80 Kg di azoto per ettaro in un anno renderebbe i suoli delle praterie “funzionalmente poveri e altamente instabili oltre che vulnerabili a eventi meteo estremi”
di Matteo Cavallito
Gli scienziati le hanno ribattezzate da tempo “soglie ecologiche”, come dire: le barriere da non valicare. Quelle, per capirci, che definiscono i limiti critici di un ecosistema oltre i quali anche piccoli cambiamenti nelle condizioni possono avere effetti sproporzionati sulla biodiversità e sul funzionamento di quegli stessi ambienti. Un concetto che è al centro di un recente studio pubblicato sulla rivista Nature Ecology & Evolution che ha preso in esame l’impatto dei fertilizzanti a base di azoto nelle praterie.
Gli autori, in particolare, hanno misurato per la prima volta, la quantità di elemento capace di far perdere alle specie vegetali lì ospitate la capacità di coesistere. Un fenomeno che provoca a sua volta un forte calo della varietà di specie – e dei relativi servizi offerti – rendendo gli ecosistemi stessi estremamente vulnerabili agli eventi climatici.
Le praterie sono tra gli ecosistemi più a rischio
Le praterie, spiegano i ricercatori dell’INRAE, l’Institut national de la recherche agronomique, un ente pubblico francese che ha collaborato alla ricerca, ospitano una grande varietà di specie vegetali e offrono numerosi servizi ecosistemici, come il sequestro del carbonio, il sostegno agli impollinatori e il pascolo per il bestiame (incluso quello rigenerativo). Esse, tuttavia, sono anche tra gli ecosistemi più minacciati dalle attività umane, compresa l’intensificazione dell’uso del suolo e le attività agricole.
Tra gli stress del terreno c’è l’ampio uso di fertilizzanti che può provocare un accumulo di azoto mettendo a rischio la tenuta dell’ecosistema e dei suoi attori.
Per comprendere meglio il fenomeno, i ricercatori hanno elaborato i dati raccolti su 150 praterie temperate in Germania tra il 2008 e il 2020. Questi ambienti, hanno spiegato, sono particolarmente rappresentativi degli ecosistemi agricoli dell’Europa occidentale e sono gestiti con diversi livelli di intensità.
Il suolo regge un massimo di 80 kg di azoto per ettaro all’anno
Per identificare le soglie ecologiche, i ricercatori hanno quindi analizzato una serie di tratti funzionali delle piante – come le dimensioni delle foglie e la velocità di crescita, ad esempio – che determinano come le specie reagiscono, interagiscono e influenzano l’ambiente. La fertilizzazione, spiegano, costituisce già di per sé la prima soglia: nei campi trattati con i prodotti azotati, infatti, la biodiversità si riduce. Anche se l’ecosistema resta stabile e produttivo.
Il vero problema si manifesta in seguito. “La seconda soglia si è superata nel momento in cui la concimazione ha ecceduto gli 80 kg di azoto per ettaro all’anno o quando, nel medesimo periodo e in un’area equivalente, la presenza degli animali ha generato una pressione maggiore di quella associata a 500 giorni di pascolo di una unità di bestiame”, afferma lo studio.
Oltre questi limiti, prosegue la ricerca, “le praterie gestite in modo più intensivo erano funzionalmente povere, altamente instabili e vulnerabili agli eventi meteo estremi“. Le soglie ecologiche individuate, conclude l’indagine, “possono diventare degli obiettivi per la gestione sostenibile e le buone pratiche di fertilizzazione”.
La sfida: prevenire cambiamenti critici negli ecosistemi
Lo studio, dunque, ha permesso per la prima volta di individuare una soglia oltre la quale l’intensificazione agricola non produce più maggiore biomassa vegetale coltivata. Generando, per contro, una maggiore perdita di nutrienti attraverso la lisciviazione per via dell’aumento dell’infiltrazione d’acqua. In questo modo le colture diventano più vulnerabili agli stress climatici e in particolare alla siccità.
Le conoscenze fornite dalla ricerca possono ora aiutare a valutare meglio la capacità delle praterie di sostenere un’elevata diversità vegetale e di intervenire tempestivamente ai primi segnali di calo dei servizi ecosistemici. L’approccio proposto, concludono gli autori, potrebbe essere applicato anche alla gestione di altri problemi ambientali – come l’eutrofizzazione dei laghi, la gestione delle risorse ittiche e forestali, o la desertificazione – per prevenire cambiamenti critici negli ecosistemi anticipando il loro degrado.

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