Lo studio dell’Imperial College di Londra: l’applicazione dell’intelligenza artificiale consente di prevedere l’andamento dei livelli di azoto nel terreno evitando l’uso eccessivo dei fertilizzanti e i relativi danni ambientali
di Matteo Cavallito
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I fertilizzanti, si sa, sono una risorsa fondamentale per la promozione della resa del suolo. Ma il loro uso eccessivo, è altrettanto noto, può creare seri problemi all’equilibrio del terreno. Usare la giusta quantità di prodotto rispettando le tempistiche ottimali, di conseguenza, resta un compito primario per gli agricoltori. Che, per fortuna, possono contare oggi su un crescente sostegno tecnologico.
L’ultimo esempio, in ordine di tempo, viene dal Regno Unito, dove gli scienziati dell’Imperial College di Londra hanno elaborato un nuovo strumento di analisi preliminare. “La nostra tecnologia può consentire ai coltivatori di sapere quanta ammoniaca e nitrati siano attualmente presenti nel suolo”, ha spiegato Max Grell, ricercatore presso il Dipartimento di Bioingegneria dell’ateneo londinese. Ma anche, ha aggiunto, “di prevedere quanta ce ne sarà in futuro in base alle condizioni meteorologiche”.
Prevedere i livelli di azoto con l’intelligenza artificiale
Gli scienziati, nell’occasione, hanno sviluppato un modello matematico che può essere utilizzato per elaborare i dati raccolti da un apposito sensore del terreno. Lo strumento, chiamato chemPEGS, o “chemically functionalised paper-based electrical gas sensor”, misura i livelli di ammonio. Ovvero il composto base che viene convertito in nitriti e nitrati dai batteri del suolo.
L’applicazione dell’intelligenza artificiale – e dell’apprendimento automatico in particolare – permette di sfruttare i dati relativi alle condizioni metereologiche, al tempo di fertilizzazione, al livello di acidità al grado di conducibilità del suolo per prevedere l’andamento dei livelli di azoto nei successivi 12 giorni. Individuando così il momento ideale per la concimazione.
La concentrazione dei nitrati, si legge nello studio pubblicato lo scorso dicembre sulla rivista Nature, “può essere determinata e prevista con sufficiente accuratezza per prevedere l’impatto del clima sulla pianificazione della fertilizzazione adeguando i tempi di intervento, riducendo l’eccessivo apporto di sostanze e migliorando le rese delle colture”.
Una risorsa contro l’uso eccessivo di fertilizzanti
Il minore uso dei fertilizzanti a base di azoto è cruciale. Secondo gli autori l’impiego di questi ultimi è aumentato del 600% nell’ultimo mezzo secolo rendendo inutilizzabile il 12% della terra un tempo coltivabile. Di recente, un rapporto realizzato dall’UNEP (Agenzia Onu per l’Ambiente) in collaborazione con la FAO e l’OMS ha evidenziato i problemi principali associati al fenomeno. La lista include “perdite di nutrienti nell’ambiente e contaminazione delle risorse idriche”. Alcuni fertilizzanti in particolare “hanno anche conseguenze sulla salute umana a causa di pratiche di stoccaggio non sicure”.
I ricercatori dell’Imperial College sottolineano inoltre il peso dell’impatto climatico del protossido di azoto. “Un gas serra 300 volte più potente dell’anidride carbonica” che viene rilasciato dai terreni eccessivamente trattati. O che, talvolta, può essere trascinato dalla pioggia nei vicini corsi d’acqua contaminandoli e riducendone la biodiversità.
I test del suolo sono la soluzione ideale
La scoperta dei ricercatori, infine, rilancia ancora una volta il tema dell’importanza dei test del suolo che negli ultimi tempi stanno attirando crescente attenzione. Determinante, in questo senso, il boom dei prezzi dei fertilizzanti, travolti anch’essi dall’impennata delle materie prime. Una corretta indagine delle proprietà del terreno, infatti, rappresenta sempre di più un’opportunità economica, come ha sottolineato di recente Greg LaBarge, esperto della Ohio State University e co-autore di alcune linee guida sull’argomento.
Quanto al sostegno della tecnologia si tratta solo di aspettare. I sensori chemPEGS e il relativo programma di analisi dei dati sono attualmente in fase di prototipo. La loro commercializzazione, hanno spiegato i ricercatori, dovrebbe richiedere da un minimo di tre a un massimo di cinque anni.