Dall’università di Ferrara uno studio sull’Appennino emiliano-romagnolo per selezionare le migliori pratiche selvicolturali che permettano di incrementare il sequestro di carbonio nel suolo. Un modo virtuoso per contrastare i cambiamenti climatici
di Emanuele Isonio
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Avete presente la tartuficoltura? Non è solo un’attività con margini di guadagno di tutto rispetto per chi la pratica. Può essere anche uno strumento da applicare a suoli ritenuti di scarso interesse produttivo, marginali, abbandonati dall’agricoltura intensiva e sui quali magari sono tornati i boschi. Di più: è una di quelle azioni che possono aiutare ad aumentare la quantità di sostanza organica nel suolo dei terreni boschivi.
Ma come la tartuficoltura ci possono molte altre pratiche da diffondere. Per individuare quali sono, i ricercatori dell’università di Ferrara sono impegnati nel progetto SuoBo. L’iniziativa, finanziata dalla Regione Emilia Romagna nell’ambito del Programma di sviluppo rurale PSR 2014-2020, è realizzata insieme all’università di Bologna e ad alcune aziende silvicolturali e agricole.
Analisi tra Sasso Marconi e Casola Valsenio
Da diversi mesi, sono quindi in corso rilievi sui terreni dell’Appennino bolognese tra Sasso Marconi e Monte San Pietro e dell’Appennino Romagnolo a Casola Valsenio. L’attività scientifica di SuoBO si sta concentrando sulla sostanza organica contenuta nei suoli. Un insieme eterogeneo di materiale di origine animale, vegetale e microbico che si trova nei terreni e che è costituito da carbonio.
Le analisi hanno inoltre riscontrato che la gestione dei pendii boscati può essere arricchita da altre attività che, oltre a mantenere il bosco in salute, favoriscono anche il sequestro di carbonio nel suolo. Ma analogo discorso può essere fatto per i terreni agricoli: dal modo in cui vengono lavorati infatti dipende in larga parte la quantità di CO2 e di altri gas serra rilasciati in atmosfera. Con tutte le conseguenze in termini di cambiamenti climatici e di riscaldamento globale cui stiamo già assistendo.

Un suolo sano immagazzina più carbonio di quello catturato dall’atmosfera e dalla vegetazione. Immagine: RECSOIL, FAO, 2019 in www.fao.org/3/ca6522en/CA6522EN.pdf Some rights reserved. This work is available under a CC BY-NC-SA 3.0 IGO licence
Obiettivo: +0,4% di carbonio organico nei suoli
“Non dobbiamo dimenticare che i suoli sono la principale riserva di carbonio. Il carbonio organico in esso contenuto tende a degradarsi facilmente in forme gassose. Tale degradazione, che causa il rilascio dei gas serra, è fortemente indotta da pratiche agricole e selvicolturali aggressive, come l’utilizzo di concimi minerali e lo scarso apporto di ammendanti di natura organica” spiega Gianluca Bianchini, docente del Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra dell’università di Ferrara che guida il gruppo di ricerca.
Obiettivo del progetto è dunque individuare pratiche forestali capaci di incrementare il sequestro di carbonio. Il risultato è cruciale per contribuire nella lotta globale alle emissioni umane climalteranti: “Se a livello planetario facessimo aumentare dello 0,4% il contenuto di carbonio organico dei suoli – ricorda Bianchini – saremmo in grado di bilanciare tutte le emissioni derivanti dalle attività umane”.
Un risparmio anche economico
Il ruolo del terreno nel sequestro della CO2 è notoriamente decisivo. “Un suolo sano immagazzina più carbonio di quanto ne catturino l’atmosfera e la vegetazione messe insieme e può conservarlo per migliaia di anni” ha ricordato a più riprese la FAO. Tuttavia, alcune stime rilevano come i suoli coltivati del mondo abbiano perso “tra il 25 e il 75% del loro stock di carbonio originale rilasciandolo nell’atmosfera sotto forma di CO2″. Un fenomeno dovuto principalmente “alle pratiche di gestione insostenibile che hanno portato al degrado del terreno e amplificato il cambiamento climatico e i suoi impatti”. Un problema che si traduce anche in danni economici che l’Unione europea ha calcolato in una cifra compresa tra 3 e 6 miliardi di euro solo per quanto riguarda la diminuzione di sostanza organica.
Per invertire la rotta, diverse strategie sono già note a chi studia la salute dei suoli e ruotano tutte attorno a un tipo di agricoltura conservativa: “Le pratiche agricole con poche lavorazioni sono ideali” commenta Bianchini. Parola d’ordine: “arare poco i terreni, areando meno i suoli, in modo da non esporre all’aria il carbonio, e utilizzare fertilizzanti non di derivazione chimica”.

I ricercatori dell’Università di Ferrara impegnati nelle analisi del progetto SuoBO. FOTO: Università di Ferrara.