La deforestazione, segnala una ricerca dell’Onu, comporta rischi enormi per gli investitori. Entro il 2030 le aziende al centro del sistema di approvvigionamento alimentare globale potrebbero cedere fino al 26% del loro valore
di Matteo Cavallito
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La deforestazione non rappresenta solo una minaccia per il clima e la sicurezza alimentare ma anche una potenziale bomba a orologeria per gli investitori finanziari. Puntando sui settori coinvolti nell’uso indiscriminato delle risorse, infatti, gli operatori rischiano di andare incontro a enormi perdite nel futuro. Non diversamente dai loro omologhi tuttora esposti sul comparto fossile. Lo suggerisce uno studio a cura di UN Climate Change High-Level Champions, un’organizzazione promossa dalle Nazioni Unite per contribuire al raggiungimento degli obiettivi climatici di Parigi.
Secondo gli autori, un rapido cambio di rotta nell’utilizzo del suolo appare non meno necessario della transizione energetica. “Le industrie forestali, fondiarie e agricole – si legge nel rapporto – contribuiscono al 22% delle emissioni globali”. La quota più alta tra tutti i comparti con l’eccezione del settore fossile.
La deforestazione genera un rischio finanziario
Da tempo gli investitori sembrano prendere coscienza dei rischi legati all’eccessiva esposizione sulle fonti energetiche ad alto impatto climatico. Ma le conseguenze negative associate alle operazioni nei settori dell’agricoltura, della silvicoltura e dell’uso del suolo sono ancora trascurate dalla maggior parte di loro.
In risposta a questo problema, lo studio ha provato a stimare l’impatto della transizione ecologica sul valore di 40 tra le maggiori aziende agroalimentari del mondo caratterizzate da una capitalizzazione complessiva di oltre 2.000 miliardi di dollari.
“Le singole aziende al centro del sistema di approvvigionamento alimentare globale potrebbero cedere fino al 26% del loro valore entro il 2030”, si legge nello studio. E non è tutto.
Un impatto superiore a quello della crisi del 2008
Il fatto, osservano i ricercatori, è che questa contrazione di valore non costituisce un fenomeno circoscritto. Non si tratta, in altre parole, di affrontare uno shock ciclico una tantum, bensì, al contrario, di andare incontro a perdite durature. L’ammontare di queste ultime, prosegue l’indagine, supera mediamente il 7% della capitalizzazione, pari a circa 150 miliardi di dollari.
Un dato ancora più impressionante, per fare un paragone, di quello relativo alla perdita di produzione potenziale di lungo periodo conseguente alla crisi finanziaria del 2008. Che nei Paesi dell’OCSE viaggiava allora attorno al 5,5%.
Per evitare di andare incontro a un’esperienza ancora peggiore rispetto a quella patita in passato, dunque, gli autori invocano scelte lungimiranti da parte del mondo finanziario. Invitando gli investitori a escludere dai propri portafogli quelle aziende che sono coinvolte nel processo di deforestazione.
30 grandi investitori contro la distruzione delle foreste
Nonostante il ritardo complessivo del settore, nota l’organizzazione, qualcosa sembra muoversi a livello globale. Nigel Topping, rappresentante per il Regno Unito dell’High-Level Champions, osserva ad esempio che “oltre 30 istituzioni finanziarie con più di 8.700 miliardi di dollari di asset gestiti hanno già firmato una ‘Lettera di intenti del settore finanziario per l’eliminazione della deforestazione causata dalla richiesta di materie prime’, fissando la data limite al 2025”.
Non è abbastanza, sottolinea Topping. Ma l’iniziativa, per quanto limitata, evidenzia in ogni caso come sia possibile, oltre che necessario, “proteggersi dal rischio finanziario, normativo e reputazionale legato ai propri portafogli”.
A fargli eco è Peter Harrison, amministratore delegato di Schroders Group. “La ricerca sottolinea il ruolo critico che la natura deve svolgere nel modo in cui noi investitori interpretiamo il rischio e individuiamo le opportunità”, spiega. “La realtà è evidente: quello ambientale sta rapidamente diventando un fattore integrante nell’analisi del rischio d’investimento”.