Una volta inumidita, la terra secca produce nuove emissioni di CO2. Un fenomeno correlato a diverse proprietà fisiche e chimiche. Da una ricerca USA un metodo rapido ed economico per misurare le caratteristiche del terreno
di Matteo Cavallito
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Analizzare le emissioni di CO2 del suolo per valutarne lo stato di salute. È la missione degli scienziati del Northern Plains Agricultural Research Laboratory di Sidney nel Montana, un centro di ricerca del Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti che, in questi mesi, ha saputo elaborare un nuovo metodo, facile, rapido ed economico, per misurare le variabili chimiche e fisiche dei terreni aridi. L’indagine, i cui risultati sono stati pubblicati sul Soil Science Society of America Journal, edito dalla Soil Science Society of America, chiama in causa il cosiddetto “carbon dioxide flush”, il fenomeno dei flussi di anidride carbonica che si producono quando il suolo secco viene inumidito e che sono il risultato dell’attività dei suoi microbi.
“Abbiamo scoperto che questi flussi sono legati a diverse proprietà del suolo e ai rendimenti delle colture a lungo termine”, ha spiegato Upendra Sainju, principale autore della ricerca. Queste emissioni di CO2, segnala lo studio, “possono indicare il ciclo dei nutrienti, il sequestro del carbonio, la decomposizione della materia organica, gli emendamenti naturali, la quantità e la qualità del substrato disponibile, la dimensione della presenza di biomassa microbica, il potenziale di mineralizzazione di azoto e il livello di aggregazione del suolo”. Informazioni decisive, insomma. Che possono essere raccolte rapidamente e con poca spesa.
La CO2 è un indicatore delle proprietà fisiche e chimiche
Alla base dello studio ci sono le correlazioni già note tra la propensione all’emissione di CO2 e la presenza di particolari proprietà fisiche e chimiche. “Una maggiore aggregazione del suolo, ad esempio, può stimolare lo sviluppo di CO2 aumentando probabilmente la crescita microbica”. Inoltre, l’aumento dei flussi di anidride carbonica segnala anche un maggiore capacità di trattenere l’acqua, correlata a sua volta a una più diffusa attività microbica. Un suolo compatto e meno poroso, inoltre, evidenzia una respirazione ridotta. E gli esempi potrebbero continuare. L’analisi si è così posta l’obiettivo di verificare la validità del metodo di misurazione dell’anidride carbonica e la sua capacità di descrivere le caratteristiche del terreno.
L’esperimento
Nel corso dell’indagine i ricercatori si sono concentrati su due siti sperimentali del Montana nordorientale. Nel primo, gli scienziati hanno analizzato i campioni di suolo secondo il metodo tradizionale che prevede un processo più lungo. I reperti, nel dettaglio, sono stati innaffiati con acqua e lasciati riposare per quattro giorni prima di essere esaminati con l’impiego di reagenti chimici.
Nel secondo sito, i campioni sono stati messi a riposo per un solo giorno e, successivamente, sono stati osservati con l’impiego di una strumentazione a raggi infrarossi capace di individuare il rilascio della CO2. Le due diverse tecniche hanno restituito risultati diversi.
I ricercatori hanno messo a confronto i dati con le proprietà chimiche e fisiche legate alle caratteristiche dei vari campioni. Risultato: le prove con gli infrarossi, che richiedono un giorno di preparazione, hanno rilevato correlazioni più evidenti di quelle mostrate dall’analisi a quattro giorni. Il metodo introdotto nella ricerca, in altre parole, si è rivelato non solo più rapido ma anche più efficace nel descrivere le proprietà del terreno attraverso la misurazione della CO2. Un risultato che presenta importanti implicazioni.
Un sistema più economico
“La possibilità di analizzare il flusso di anidride carbonica senza l’impiego di prodotti chimici consente di misurare la salute del suolo direttamente sul campo” ha spiegato ancora Upendra Sainju. “Il mancato utilizzo di queste sostanze, inoltre, rende questo metodo più rapido ed economico”. Si tratta di un aspetto importante che rende la tecnica preferibile rispetto ad altre metodologie che, oltre a essere più costose, richiedono più tempo e restituiscono risultati meno precisi. Secondo i ricercatori, al contrario, il sistema adottato nell’esperimento sarebbe in grado di offrire misurazioni più accurate. Aiutando così agricoltori, esperti di ecologia e amministratori a valutare la sostenibilità delle pratiche di coltivazione nei terreni.
Meno fertilizzanti
Il pensiero corre soprattutto al tema dei fertilizzanti e al problema della complessa ricerca di un equilibrio tra benefici e costi ambientali che ne accompagnano l’utilizzo. Il metodo di indagine sperimentato, si legge nella ricerca, è in grado di fornire informazioni “sulla disponibilità di azoto e sul suo processo di mineralizzazione”. Ma anche “sulla biomassa microbica e la materia organica del suolo”.
Di norma, prosegue lo studio, “dal momento che ci vuole molto tempo per misurare il potenziale di mineralizzazione dell’azoto, fattore di cui spesso gli agricoltori non tengono conto quando applicano i fertilizzanti azotati, ecco che il terreno può ritrovarsi a sperimentare un’eccessiva fertilizzazione”. Questo fenomeno è capace “di generare un maggiore accumulo del medesimo elemento determinando il degrado del suolo e della sua qualità ambientale”. Al contrario, “la misurazione del flusso di CO2 consente di stimare il potenziale di mineralizzazione che può essere utilizzato per regolare i livelli di fertilizzazione”. Riducendo, in questo modo, il degrado del suolo e preservandone la qualità.