16 Agosto 2021

La campagna di pressione dei fondi di investimento sul Brasile potrebbe indurre il governo a più miti consigli nella tutela del suo patrimonio forestale. Ma la svolta deve arrivare presto

di Matteo Cavallito

 

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Cresce la pressione sul Brasile, chiamato a frenare il processo di deforestazione che tormenta l’Amazzonia. Ma a lanciare appelli sempre più urgenti nei confronti del governo di Jair Bolsonaro, questa volta, non sono solo le organizzazioni ambientaliste. A scendere in campo, nell’occasione, sono attori non meno determinati ma verosimilmente più potenti: i grandi fondi di investimento. La vicenda è emersa con forza a giugno quando un gruppo di investitori ha inviato una lettera a diverse ambasciate brasiliane nel mondo chiedendo all’esecutivo un deciso cambio di rotta. I fondi, che includono la società di gestione patrimoniale e previdenziale norvegese Storebrand Asset Management, la connazionale Nordea e la britannica LGIM, gestiscono un portafoglio complessivo da 7 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari. Oltre quattro volte il Pil del Brasile.

Il Brasile non protegge abbastanza le sue foreste

Il gruppo, nota il Financial Times, si è posto alcuni obiettivi tra cui il rafforzamento del Codice Forestale locale. Creato nel 1965, il corpus normativo impone ai proprietari terrieri di lasciare allo stato naturale fino all’80% delle loro terre a seconda delle circostanze. Nel 2012, tuttavia, il Brasile ha riformato la legge abbassando la soglia massima di tutela al 50% per quelle proprietà che si collocano negli Stati della federazione che già tutelano come riserve naturali il 65% dei loro territori. La nuova norma, inoltre, fissa un’amnistia per tutte le operazioni di deforestazione illegale avvenute prima del 2008.

Ad oggi l’allarme non si è affatto placato mentre la riforma del catasto territoriale, che si basa sull’adozione di un sistema più moderno e digitalizzato, è stata criticata per la sua tendenza, secondo gli attivisti, a favorire proprietari e investitori a discapito delle comunità locali. Il Brasile, a conti fatti, resta uno dei Paesi più colpiti dal land grabbing, la contestata corsa all’accaparramento della terra.

I dati 2020 confermano il quadro già emerso lo scorso anno: Perù, Russia, Repubblica Democratica del Congo e Brasile sono i Paesi più colpiti dal fenomeno del land grabbing. Immagine: Land Matrix/Statista https://www.statista.com/chart/19044/countries-most-affected-by-land-grabs/

Nel XXI secolo il Brasile ha ceduto in concessione agli operatori stranieri 4,68 milioni di ettari. Nel mondo solo Perù, Russia e Repubblica Democratica del Congo hanno “perso” un ammontare più ampio di territorio. Immagine: Land Matrix/Statista https://www.statista.com/chart/19044/countries-most-affected-by-land-grabs/

L’Amazzonia vive il suo anno peggiore

Nel maggio del 2021, la deforestazione dell’Amazzonia brasiliana è cresciuta del 67% nel confronto con il medesimo periodo dell’anno precedente. Il trend di crescita (+17% su base annuale) è conclamato e il presidente Jair Bolsonaro è ovviamente il grande accusato. Sul banco degli imputati, però, a sedergli idealmente accanto sono le grandi aziende del settore agroalimentare così come i colossi finanziari che garantiscono a queste ultime un sostegno decisivo.

Nel 2020, ha rivelato ad esempio un’indagine della Ong Global Witness, le banche del Regno Unito hanno concesso finanziamenti per oltre 900 milioni di sterline (circa 1 miliardo di euro), a imprese che contribuiscono alla deforestazione su scala globale. Il dato preoccupa e fa riflettere. Ma suggerisce implicitamente una possibile via d’uscita. Per tutelare il futuro dell’Amazzonia, così come delle altre foreste del Pianeta, in altre parole, il disinvestimento finanziario può essere determinante.

I fondi? Possono essere decisivi

Per questa ragione, l’iniziativa assunta dai fondi desta interesse e suscita speranza. “I membri del gruppo di investitori non hanno detto cosa accadrà se i loro obiettivi non saranno raggiunti”, scrive il Financial Times. “Alcuni sostengono che un engagement prolungato sia preferibile rispetto alla vendita delle partecipazioni e alla perdita di influenza – una tesi utilizzata spesso per difendere i continui investimenti nel settore fossile”. Ma il fatto, prosegue il quotidiano britannico, è che “il cavalleresco disprezzo dell’amministrazione Bolsonaro per la ricchezza naturale del Paese non è condiviso da molte imprese brasiliane. Le aziende che esportano in Europa e in America sono allarmate dal rischio di boicottaggio da parte dei consumatori o degli investitori di fronte all’inerzia del governo che renderebbe il brand Brasile eccessivamente tossico”.

Per quanto storicamente corresponsabili della deforestazione, insomma, finanza e industria hanno oggi un grande potere di “persuasione”. La speranza, ovviamente, è che decidano di farlo valere. “È tempo che gli investitori mandino un segnale da 7 trilioni di dollari al governo brasiliano”, scrive ancora il Financial Times. “Se la deforestazione non diminuisce occorrerà disinvestire”.