Il ripristino dei terreni degradati interessa 2 miliardi di ettari. Metà dell’area dovrà essere riportata in salute entro il 2030. L’appello di FAO e UNEP
di Matteo Cavallito
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La strada della sopravvivenza passa attraverso il ripristino del suolo degradato. E l’obiettivo non può che essere ambizioso: “riportare in vita almeno 1 miliardo di ettari nel prossimo decennio”. Come dire, garantire la rinascita di un’area grande quanto la Cina tutelandone la salute. È il messaggio lanciato dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) e dalla FAO in una nota congiunta. L’appello, che si colloca nell’alveo del Decennio ONU sul restauro degli ecosistemi 2021-2030, giunge in concomitanza con la pubblicazione del rapporto Becoming #GenerationRestoration, lanciato all’inizio di giugno. Le cui conclusioni appaiono decisamente preoccupanti.
Il degrado interessa 3,2 miliardi di persone
Il ripristino previsto per il decennio in corso punta a risolvere, per così dire, metà del problema. Si stima, dicono i ricercatori, che le aree degradate del Pianeta si estendano per quasi due miliardi di ettari e ospitino, tra gli altri, alcuni degli individui più poveri del mondo. Ad oggi, si legge nel rapporto, “circa un terzo dei terreni agricoli del mondo è degradato, l’87% delle zone umide interne di tutto il mondo è scomparso negli ultimi tre secoli”. A conti fatti “il degrado sta già influenzando il benessere di circa 3,2 miliardi di persone, il 40% della popolazione mondiale”.
Ogni anno, infine, “perdiamo servizi ecosistemici che valgono più del 10% della nostra produzione economica globale”. Invertire questa tendenza, tuttavia, porta con sé risultati grandiosi. “Il ripristino degli ecosistemi e altre soluzioni naturali potrebbero contribuire a più di un terzo della mitigazione totale del clima necessaria entro il 2030”. Frenando inoltre “il rischio di estinzioni di massa delle specie e di future pandemie”.
Le pratiche al servizio del ripristino
“L’umanità sta usando circa 1,6 volte la quantità di servizi che la natura può fornire in modo sostenibile” sostengono i ricercatori. “Questo significa che gli sforzi di conservazione da soli non sono sufficienti a prevenire il collasso degli ecosistemi su larga scala e la perdita di biodiversità”. Occorre affidarsi al ripristino, dunque, attraverso le buone pratiche.
Ripristinare gli ecosistemi, significa fermare il degrado. Ma anche, nel dettaglio, garantire “la mitigazione di condizioni meteorologiche estreme, una migliore salute umana e il recupero della biodiversità”. Le pratiche più utili includono “una migliore impollinazione delle piante” così come “la riforestazione e la riumidificazione delle torbiere”. Nella lista dei luoghi da salvare “terreni agricoli, foreste, praterie e savane, montagne, torbiere, aree urbane, acque dolci e oceani.

Tra le conseguenze di un efficace ripristino anche il raggiungimento dell’obiettivo Fame Zero entro il 2030. Immagine: © 2021 United Nations Environment Programme 2021
I benefici valgono 30 volte gli investimenti
Lo sforzo previsto, in ogni caso, non sarà certo da poco. I suoi costi – escludendo il recupero degli ecosistemi marini – ammonterebbero infatti “ad almeno 200 miliardi di dollari all’anno entro il 2030”. Ma i benefici economici previsti sono enormi: secondo il rapporto questi ultimi dovrebbero superare di trenta volte gli investimenti.
Alcuni esempi: la sola agrosilvicoltura “potrebbe far aumentare la sicurezza alimentare di 1,3 miliardi di persone”. Il ripristino delle aree boschive, inoltre, impatta positivamente su altri settori dell’economia. “Dopo aver raddoppiato la sua copertura forestale dagli anni ’80”, ad esempio, “il Costa Rica ha visto crescere l’ecoturismo che oggi rappresenta il 6% del suo Pil”.

I benefici del ripristino includono la mitigazione climatica. Immagine: © 2021 United Nations Environment Programme 2021
Ripresa post Covid: meno di 1 piano su 5 è davvero green
La FAO e l’Unep invocano infine “un monitoraggio affidabile degli sforzi di ripristino”, ritenuto “essenziale” anche “per attrarre investimenti privati e pubblici”. L’obiettivo, perseguito anche attraverso il lancio di un Digital Hub ad hoc, chiama in causa il coinvolgimento di tutte le parti interessate. Tra queste, ovviamente, gli individui, le imprese, le associazioni e i governi. Così come le popolazioni indigene e le comunità locali che possono fornire un importante contributo in termini di conoscenze, esperienze e capacità. Tra gli appelli più significativi spicca la richiesta ai governi di assicurarsi “che i loro piani di ripresa post COVID-19 includano stanziamenti significativi per il ripristino degli ecosistemi”. Attualmente, solo il 18% circa dei piani di stimolo alla ripresa, affermano Unep e FAO, può essere definito “verde”.