L’allarme emerge da una serie di videointerviste a gestori di impianti di compostaggio realizzate dal consorzio Biorepack. Percentuali troppo alte di “frazioni estranee” (arrivano anche al 12%) rendono più difficile e costoso realizzare il compost. Promosse invece a pieni voti le bioplastiche compostabili, flessibili e rigide: “utilissime per aumentare quantità a qualità del prodotto finale”
di Emanuele Isonio
All’opinione pubblica il concetto di “frazioni estranee” dice poco o nulla. Per chi opera ogni giorno nel mondo dei rifiuti, è un ostacolo e nient’affatto secondario. Prendiamo il caso dei rifiuti organici, la componente più rilevante dei rifiuti urbani (circa il 40% del totale). Una loro valorizzazione è fondamentale perché possono essere trasformati in compost, prezioso fertilizzante naturale due volte prezioso: sono un valido sostituto dei prodotti chimici di sintesi e, oltre ad aumentare le rese agricole, aiutano a restituire sostanza organica ai terreni agricoli, sempre più a rischio desertificazione. Per produrre il compost è necessario che la materia prima di partenza sia il più possibile “pulita“. Deve cioè essere composta solo da materiali compostabili. Purtroppo non sempre è così. le frazioni estranee non compostabili raggiungono fino al 12% del totale dei rifiuti conferiti agli impianti di compostaggio.
La denuncia emerge da una serie di indagini nelle quali viene data voce ai gestori degli impianti di compostaggio e di digestione anaerobica. A realizzarle, il consorzio nazionale per il riciclo organico degli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile, Biorepack, che le ha poi trasformate in una serie di videointerviste. Da Nord a Sud un viaggio per immagini per informare sul fine vita dell’umido: dal Piemonte alla Puglia passando per il Veneto, l’Abruzzo e la Sardegna.
Plastica tradizionale, vetro e metalli
I cinque impianti visitati da BIOREPACK sono responsabili, tutti insieme, della gestione di oltre 800mila tonnellate di frazione organica ogni anno, sia attraverso impianti di solo compostaggio sia con impianti integrati, che uniscono la fase di digestione anaerobica con quella aerobica. Significativo che le loro analisi coincidano sui diversi punti trattati nelle interviste. A partire, appunto, dal pericolo causato dalle frazioni estranee. “I materiali non compostabili (MNC) raggiungono percentuali tra l’8 e il 12% dei rifiuti organici conferiti” rivela ad esempio Flaviano Fracaro. responsabile Filiera FORSU di Iren Ambiente, la multiutility che gestisce la raccolta rifiuti nelle province di Parma, Piacenza, Reggio Emilia, La Spezia e Torino. “La maggior parte è costituita da plastiche tradizionali, nonostante la normativa che le vieti abbia ormai più di 10 anni. Ma anche da vetro e metalli”.
“La vera sfida è riuscire a eliminare completamente queste impurità che danneggiano il processo di compostaggio e la qualità del prodotto finale” aggiunge Fabrizio Pilo, amministratore unico di Verde Vita, che gestisce i rifiuti in 15 Comuni del nord-ovest della Sardegna. Secondo Pilo, per raggiungere l’obiettivo è fondamentale la sinergia tra tutti gli attori della filiera. “Devono essere messi a sistema e responsabilizzati per contribuire a creare un percorso virtuoso. La nostra esperienza ad esempio ha dimostrato che costruire una rigorosa raccolta porta a porta riduce fortemente il tasso dei materiali non compostabili”.
Il caso dell’impianto sardo mostra infatti che, organizzando in modo metodico la raccolta dell’umido, i vantaggi possono essere davvero per tutti: per i cittadini che vedono diminuire mediamente il costo della tariffa rifiuti, per i Comuni che hanno minori costi di gestione e per gli agricoltori del territorio. Il compost prodotto dall’impianto Verde Vita ad esempio viene interamente distribuito nelle aziende agricole nel raggio di 40 chilometri.
Bioplastiche promosse: “Come una mela o un pezzo di legno”
Altro aspetto sul quale coincidono alla lettera le risposte degli impiantisti è sui prodotti realizzati in bioplastica compostabile. Sacchetti per la raccolta dell’umido, buste della spesa o dell’ortofrutta, piatti, bicchieri, posate e cialde per il caffè. Gli imballaggi di questo tipo stanno crescendo sensibilmente, da quando la direttiva SUP della Ue ha vietato l’uso del monouso in plastica tradizionale. Dal 1° gennaio scorso, la legge italiana ha stabilito che le bioplastiche compostabili devono essere gettate insieme ai rifiuti organici. Proprio perché la loro peculiarità è di potersi degradare insieme a questi ultimi. Ma sul tema c’è ancora molta disinformazione.
Dai gestori degli impianti arriva un chiaro via libera: le bioplastiche compostabili non creano alcun tipo di problema al compostaggio, anche se questo avviene all’interno di impianti che, in testa al ciclo, hanno la fase di digestione anaerobica.
“Per le loro caratteristiche, le bioplastiche compostabili si adattano perfettamente al nostro sistema produttivo e vengono trasformate in compost al pari della FORSU” spiega ad esempio Alberto Torelli, amministratore delegato di ACIAM, che gestisce l’impianto di compostaggio più grande dell’Abruzzo.
“Si comportano come altri materiali di origine vegetale” conferma Mario Mongelli, direttore tecnico di PROGEVA. “Le bioplastiche flessibili, come i sacchetti compostabili, sono equiparabili a una mela o a una buccia di arancia, per quanto riguarda i tempi di degradazione. Gli imballaggi rigidi, che comunque rappresentano più o meno l’1% della FORSU trattata, sono paragonabili a un pezzo di legno. Se alla fine di un primo processo di compostaggio non dovessero essere ancora del tutto degradate, vengono separate alla fine del ciclo per essere reimmesse in testa”. Un processo virtuoso sotto tutti i punti di vista: ambientale, agronomico, sociale ed economico. “Il compost realizzato – sottolinea Pilo – può essere commercializzato e distribuito a partire dalle aziende agricole dello stesso territorio, costruendo così una filiera corta dei rifiuti organici che porta vantaggi per tutti”.
Etichette chiare e lotta contro chi aggira le norme
“Il nostro problema è la plastica tradizionale” dice chiaramente Werner Zanardi, tecnico di SESA SpA. “La plastica non c’entra nulla con la bioplastica. Sono materiali diversi, con comportamenti diversi e che devono seguire flussi di recupero diversi”. Da qui l’esigenza di attivarsi in due direzioni: contrastare il commercio illegale di sacchetti e stoviglie in plastica convenzionale. E aiutare i cittadini a capire con chiarezza come distinguere gli imballaggi in bioplastica.
“In vendita si trovano piatti in plastica tradizionale classificati come ‘riutilizzabili’” denuncia Lella Miccolis, amministratore unico della pugliese PROGEVA. Un modo per sfruttare una controversa lacuna normativa e aggirare il divieto di commercializzazione. “Il problema per noi compostatori è che questi prodotti sono di difficile riconoscibilità per il cittadino. Non sapendoli distinguere, li getta nella raccolta dell’umido insieme alle stoviglie compostabili. La questione di avere un’etichettatura chiara e univoca è cruciale. Si deve capire benissimo, fin dal packaging e dall’ecodesign, quali sono i rifiuti compostabili da conferire nell’organico e quali invece devono essere gettati altrove”.