21 Dicembre 2020

 

La proposta è dell’agronomo cileno Miguel Altieri: “creiamo territori agroecologici indipendenti basati sull’alleanza tra produttori e consumatori”. Ne va del benessere dei terreni. E di quello degli esseri umani

di Matteo Cavallito

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“Mangiare è un atto politico. Ogni volta che compriamo dai piccoli produttori finiamo per appoggiare una resilienza ecologica e un sistema locale sostenibile”. Così Miguel Altieri, agronomo ed entomologo cileno, docente all’università di Berkeley in California e riconosciuto come il padre dell’agroecologia. Quest’ultima – ha spiegato – è un fattore fondamentale per la soluzione dei problemi agricoli e di depauperamento dei suoli. E che, non a caso, diventa oggi, secondo lo studioso, una strategia fondamentale per superare quella crisi ambientale e sociale che la pandemia in atto ha contribuito ad esacerbare.

L’agroecologia come punto di incontro

Ma cos’è l’agroecologia? Essenzialmente un punto di incontro tra sapere tradizionale e scienza moderna. Nonché una «disciplina olistica», basata sulla correlazione tra la salute del suolo, dell’agricoltura e degli esseri umani. Sarebbero proprio questi presupposti, lascia intendere Altieri, a giustificare un ripensamento radicale del modello agricolo e produttivo. Soprattutto di questi tempi.

Rischi per il suolo, rischi per la salute

L’80% del suolo coltivato su scala globale, afferma ancora Altieri durante un suo intervento in occasione dell’edizione 2020 di Terra Madre Slow Food, ospita monocolture di soia, mais e grano. Questa produzione di massa è soggetta ai rischi climatici e patogeni e richiede ogni anno l’impiego di 2,3 milioni di tonnellate di pesticidi. Che, dichiara, avrebbero effetti negativi tanto per i terreni quanto per le persone. Come dire, danni al sistema endocrino e diffusa immunosoppressione. Il che, sostiene, renderebbe la popolazione “più vulnerabile alle malattie come il Covid-19″.

Una transizione verso i piccoli produttori

La soluzione, per così dire, è più rivoluzionaria che “riformista”. Detto in altri termini «è necessaria una transizione radicale» che solo l’agroecologia, secondo il docente, può garantire. Oggi, dice Altieri, pur occupando “dal 25% al 30% della terra” i piccoli agricoltori, come rileva anche la FAO, “producono dal 50% al 70% del cibo consumato nel mondo”. In termini di mero output, insomma, il ruolo dell’agroindustria resta sorprendentemente minoritario. Non altrettanto, però, si può dire del suo impatto ambientale. Visto che alle grandi imprese del comparto agricolo andrebbe imputato il consumo “del 70% dell’acqua e dell’80% delle risorse energetiche”. A partire da quelle fossili.

Il futuro? Filiera corta e diffusa

Puntare sulla piccola produzione significa anche scommettere sull’agricoltura urbana. “Entro il 2030 l’80% della popolazione mondiale vivrà nelle città” precisa il docente. Ovvero in quegli stessi centri urbani che oggi importano un’enorme quantità di cibo (“6 mila tonnellate al giorno ogni 10 milioni di abitanti”) favorendone il massiccio trasporto e con esso il consumo di energia e la produzione di emissioni. Proprio per questo, spiega Altieri, occorrerà creare sistemi produttivi che riducano la distanza lungo la filiera. Ovvero istituire “territori agroecologici indipendenti” fondati sull’alleanza tra produttori e consumatori.