Punto di incontro tra tradizione e scienza moderna, l’agroecologia si diffonde tra i coltivatori del Guatemala grazie a un programma di formazione. In questo modo si conservano pratiche antiche e si tutela la salute del suolo
di Matteo Cavallito
L’agroecologia come soluzione per superare la povertà e l’insicurezza alimentare. Ma anche come strategia per la tutela del suolo, la protezione dei semi e la conservazione delle pratiche tradizionali. Sono questi gli aspetti chiave che emergono dal progetto lanciato da tempo dalla Asociación de Forestería Comunitaria Utz Che’ (“buon albero” nell’antica lingua Maya kʼicheʼ) un’organizzazione con sede a Escuintla, in Guatemala. Lo racconta la ong statunitense Mongabay.
Il problema delle monocolture
“L’espansione dell’agricoltura su larga scala ha trasformato le terre ancestrali del Paese in piantagioni intensive a monocoltura, portando alla distruzione delle foreste e delle pratiche tradizionali”, scrive Mongabay. “L’uso di fertilizzanti chimici nocivi, tra cui il glifosato, vietato in molti Paesi, ha distrutto alcuni mezzi di sussistenza e ha provocato gravi danni alla salute e all’ambiente”.
In risposta a tutto questo, l’associazione ha lanciato una pratica chiamata “campesino a campesino” (da contadino a contadino) con l’obiettivo di recuperare le antiche tradizioni agricole del Guatemala. In questo modo, le scuole di agroecologia consentono alle comunità locali di affrontare i problemi dello sviluppo rurale moderno condividendo esperienze, conoscenze e risorse con gli altri agricoltori.
L’agroecologia tra scienza e tradizione
Secondo Miguel Altieri, agronomo ed entomologo cileno, docente all’università di Berkeley in California e riconosciuto come il padre di questa dottrina, l’agroecologia rappresenta essenzialmente un punto di incontro tra sapere tradizionale e scienza moderna. Nonché una “disciplina olistica”, basata sulla correlazione tra la salute del suolo, dell’agricoltura e degli esseri umani.
L’80% del suolo coltivato su scala globale, aveva affermato il docente intervenendo in occasione dell’edizione 2020 di Terra Madre Slow Food, ospita monocolture di soia, mais e grano. Questa produzione di massa è soggetta ai rischi climatici e patogeni e richiede ogni anno l’impiego di 2,3 milioni di tonnellate di pesticidi. Che, spiegava, avrebbero effetti negativi tanto per i terreni quanto per le persone.
Le scuole
Aperte già nel 2006, le scuole di agroecologia sono organizzate in una rete di oltre 40 comunità indigene e locali e associazioni di agricoltori. Diffuse in diversi dipartimenti – che ospitano una popolazione di circa 200.000 persone, quasi tutte indigene – accolgono ciascuna da 30 a 35 contadini e contadine di tutte le età.
L’obiettivo principale, prosegue la ONG, è quello di aiutare gli agricoltori a identificare problemi e opportunità, a proporre possibili soluzioni e a ricevere un supporto tecnico che possa poi essere condiviso con altri contadini.
Insomma, si scambiano conoscenze e si sperimentano soluzioni oltre ad apprendere tecniche per selezionare e proteggere le sementi autoctone, piantare e gestire le colture, conservare il suolo e raccogliere l’acqua piovana per l’irrigazione o per gli animali.
Le ricadute del progetto
Il programma di Utz Che’, riferisce ancora Mongabay, avrebbe coinvolto finora circa 33mila famiglie contribuendo alla protezione di 74mila ettari di foresta in Guatemala “contrastando gli incendi, monitorando il disboscamento illegale e praticando la riforestazione”.
Secondo Claudia Irene Calderón, esperta di agroecologia e docente della University of Wisconsin-Madison, citata ancora dalla Ong americana, il recupero e la valorizzazione delle pratiche agricole tradizionali è “essenziale per diversificare le coltivazioni e le diete e per migliorare la salute del Pianeta”. Riconoscerne il valore risulta inoltre “determinante per rafforzare il tessuto sociale degli agricoltori indigeni e di piccola scala”.