Resiliente alla crisi, innovativa, piena di opportunità: la bioeconomia circolare interessa una pluralità di settori. La sua crescita, tuttavia, richiede di cambiare paradigma di sviluppo
di Matteo Cavallito
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“La bioeconomia è una costola dell’economia circolare che, a sua volta è parte della green economy”. Stefano Leoni, Coordinatore scientifico del Circular Economy Network promosso dalla Fondazione per lo Sviluppo sostenibile, la sintetizza così. E non ci vuole molto a capire quanto ampia possa essere la portata della questione. Di questo e altro hanno discusso per oltre due ore accademici ed esperti riuniti giovedì scorso in occasione di un convegno promosso dall’Innovation Village, storica fiera-evento partenopea giunta quest’anno alla sua sesta edizione.
Temi centrali, verrebbe da dire, anche alla luce della “crescente enfasi posta dall’Europa sulla necessità di un cambio di paradigma nel modello di sviluppo”, come ricorda Valeria Fascione, Assessore della Regione Campania con delega alle Startup, Innovazione e Internazionalizzazione. Ma a pesare sono anche le sfide poste dal momento attuale.
Bioeconomia come risposta alla crisi
La buona notizia è che “la bioeconomia circolare ha offerto una forte resilienza alla crisi”, spiega Mario Bonaccorso, coordinatore del Cluster Nazionale della Chimica verde SPRING. Lo dimostra ad esempio il settore del riciclo, che per la carta, in Italia, registra un tasso di recupero dell’81%, all’avanguardia nel panorama europeo. E lo evidenzia, ovviamente, anche il comparto alimentare, uno dei massimi protagonisti della bioeconomia stessa.
“Il settore dell’agrifood italiano interessa una superficie complessiva di 13 milioni di ettari generando 180 miliardi di euro di fatturato all’anno e coinvolgendo 1,1 milioni di lavoratori”, spiega Fabio Fava, Ordinario di di Biotecnologie industriali e ambientali presso la Scuola di Ingegneria dell’Università di Bologna e direttore del National Bioeconomy Coordination Board. Il comparto, osserva, si estende su diversi segmenti – dall’agricoltura alla gestione delle foreste, dalla pesca alla trasformazione delle materie prime – e la transizione verde è destinata a garantire ulteriore espansione.
Sinonimo di innovazione
Le implicazioni sono notevoli. Anche perché la bioeconomia, ricorda ancora Fava, contribuisce alla mitigazione del clima, oltre che al ripristino della biodiversità e degli ecosistemi, alla sicurezza alimentare e alla creazione di nuovi posti di lavoro nelle aree abbandonate. Ma come funziona, in concreto, la sua promozione?
Per dare sostegno al settore “è necessario sviluppare non solo il capitale naturale ma anche quello economico, attraverso l’innovazione dei prodotti, ed umano, tramite l’istruzione” dichiara Gian Paolo Cesaretti, professore ordinario di Politica Economica Europea all’Università degli Studi di Napoli. Ma non basta. Occorre anche innovare il capitale sociale, “attraverso il rinnovamento dei valori, delle norme e delle soluzioni proposte”. E infine “i modelli decisionali, a partire dalle politiche pubbliche e proseguendo con quelli delle imprese, che devono muoversi verso la circolarità, e dei cittadini, chiamati ad acquisire una nuova responsabilità nel consumo dei prodotti e dei servizi”.
Recuperare il territorio
La certezza, insomma, è che si abbia a che fare con un vero e proprio cambiamento nella concezione stessa del modello di crescita. Con tanto di ricadute sul territorio. In Italia “c’è un’insostenibilità diffusa, con un eccesso di concentrazione nella aree costiere e metropolitane e una vera e propria desertificazione nelle zone interne” osserva Giuseppe Marotta, Ordinario di Economia ed Estimo Rurale all’Università degli Studi del Sannio di Benevento. È il risultato, prosegue il docente, di un sistema basato sul trasferimento forzato delle risorse secondo una logica non più sostenibile. Per questo, oggi, “occuparsi delle aree interne significa anche cambiare il paradigma di sviluppo” a beneficio della bioeconomia.
Rigenerare il suolo
Tra le azioni da intraprendere per la tutela del territorio c’è ovviamente la rigenerazione del suolo. Un’operazione decisiva, sottolinea Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti Piemonte, ricordando come il terreno sia “una risorsa non rinnovabile che offre un contributo alla riduzione delle emissioni grazie alla sua capacità di catturare il carbonio dall’atmosfera”. In tutto questo, però, serve un cambio di passo. Perché le potenzialità di certo non mancano. Ma la situazione resta tuttora contradditoria. Oltre un quinto delle aziende bio europee si trova in Italia, osserva ancora Moncalvo. Al momento, tuttavia, “stiamo importando sempre di più perché i prodotti esteri costano sempre meno”. Anche per questo, conclude, “dobbiamo investire di più nel nostro settore”. La questione generale, però, non riguarda solo l’agroalimentare.
Sulla circolarità occorre un cambio di passo
Per comprendere la portata di un certo ritardo italiano, infatti, occorre guardare anche a un altro aspetto della bioeconomia: il suo impatto sulla valorizzazione del territorio. Emblematico, racconta Luigi Cembalo, professore ordinario presso il dipartimento di Scienze Agrarie dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, il caso della strategia forestale. Ad evidenziarlo, in particolare, uno studio condotto dal suo stesso dipartimento sulle aree rurali della provincia di Salerno. “Da un sondaggio condotto sugli operatori locali risultava che l’82% delle aziende non era nemmeno a conoscenza del fatto che esistesse la possibilità di riciclare i materiali di scarto” spiega. È arrivato, insomma, il momento di accelerare.