Il “Piano nazionale di ripresa e resilienza” sarà l’occasione per rafforzare la bioeconomia circolare: un fattore decisivo per costruire filiere produttive sostenibili e ridurre l’enorme quantità di materie prime consumate
di Emanuele Isonio
Ascolta “Recovery Plan, un’opportunità per far decollare la bioeconomia” su Spreaker.
I 196 miliardi di euro del Recovery Plan italiano sono ormai considerati una sorta di manna dal cielo per le speranze di ripresa e modernizzazione dell’economia italiana. In più, il fatto che il 38% di quei soldi dovrebbe essere destinato alla cosiddetta “Rivoluzione verde e transizione ecologica” fa ben sperare chi da tempo sottolinea l’esigenza di ripensare profondamente le filiere produttive a partire dal tipo di materiali consumati.
Il 66% dei materiali già rifiuto dopo 12 mesi
D’altro canto, il «Piano nazionale di ripresa e resilienza» in discussione a Palazzo Chigi parte da una consapevolezza: il consumo di materiali cresce a ritmo doppio rispetto a quello della popolazione mondiale. Lo spiega bene l’ex ministro dell’Ambiente e presidente del Circular Economy Network, Edo Ronchi: “Dal 1970 al 2017, quest’ultima è passata da 3,7 a 7,5 miliardi. I materiali consumati globalmente sono invece cresciuti da 26 a 109 Gigatonnellate. Ovvero 4 volte”. Una sorta di trionfo dell’economia estrattivista, responsabile di buona parte dell’attuale crisi ecologica. Peraltro, dei 30 chili di materiali che ognuno di noi utilizza ogni giorno (per un totale di 11mila chili l’anno), solo un terzo viene ancora usato dopo appena 12 mesi. La parte restante – il 66% – è già diventato rifiuto.

Confronto tra la crescita della popolazione mondiale e del consumo di materiali. FONTE: Rapporto Circular Economy Network 2020.
Economia circolare, la leadership italiana traballa
Gli investimenti futuri in economia circolare faranno quindi la differenza. L’Italia – ricorda il Rapporto nazionale sull’Economia circolare 2020 realizzato da ENEA e Cen – non è messa male. È attualmente la prima fra le principali cinque economie europee nella classifica dell’indice di circolarità (un valore attribuito in base al livello di uso efficiente delle risorse in cinque categorie: produzione, consumo, gestione rifiuti, mercato delle materie prime seconde, investimenti e occupazione). Francia e Germania sono dietro. Eppure la nostra leadership si sta riducendo. Ad esempio, i nostri occupati in economia circolare tra il 2008 e il 2017 sono diminuiti dell’1%. A rallentare la curva di crescita gli scarsi investimenti, che si traduce in carenza di ecoinnovazione (siamo all’ultimo posto per brevetti).

Brevetti sul riciclo di materie prime seconde. Confronto tra i principali Paesi Ue. Anni 2000-2015. FONTE: Rapporto Circular Economy Network 2020.
Sostenere la bioeconomia contro il degrado dei suoli
Il rapporto ENEA – CEN sottolinea però che gli investimenti più importanti devono puntare a rafforzare la bioeconomia. Un concetto ancora oscuro per l’opinione pubblica ma su cui la Commissione Ue punta molto. “La bioeconomia – spiega Giulia Gregori, responsabile della comunicazione istituzionale di Novamont – è definita dalla Commissione europea come un’economia che usa le risorse biologiche rinnovabili provenienti dalla terra e dal mare, così come i rifuti e gli scarti, come materie prime per la produzione di energia, per nuove produzioni industriali, per produrre alimenti e mangimi. È la componente rinnovabile dell’economia circolare”. Un tassello fondamentale quindi per ridurre effettivamente l’impronta ecologica delle attività umane e per sperare di centrare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima.
Rafforzare la bioeconomia aiuta a porre rimedio alla pericolosa degradazione dei suoli, enfatizzata con preoccupazione dallo stesso rapporto ENEA-CEN. In mezzo secolo, l’intervento umano ha trasformato radicalmente il 75% delle terre emerse. Un terzo dei suoli mondiali è degradato. Ogni anno, in Europa un’area di 348 chilometri quadrati viene impermeabilizzata. “La bioeconomia è quindi un tassello fondamentale nella salvaguardia delle risorse naturali” commenta Roberto Morabito, del Dipartimento sostenibilità dei sistemi produttivi dell’ENEA. “Ma solo a condizione che sia rigenerativa, cioè basata su risorse biologiche rinnovabili e utilizzate difendendo la resilienza degli ecosistemi e non compromettendo il capitale naturale con prelievi e modalità di impiego che ne intacchino gli stock”.

Indice di suolo impermeabilizzato nella UE a 28 Stati. Anni 2009-2015. FONTE: Rapporto Circular Economy Network 2020.

Confronto tra la velocità di consumo e di ripristino dei suoli. FONTE: Ispra
Il degrado dei terreni è una fonte netta di emissioni climalteranti
Non si possono avere progressi nella bioeconomia quindi senza tutelare il suo elemento base: il suolo. Esso contiene infatti oltre 2mila miliardi di tonnellate di carbonio organico: è il secondo serbatoio di assorbimento dei gas ad effetto serra che compongono l’atmosfera terrestre. Trasparenti alla radiazione solare, trattengono la radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre, dall’atmosfera, dalle nuvole. Ma il continuo degrado del terreno e della vegetazione rappresenta oggi a livello globale un’importante sorgente netta di emissioni climalteranti. Non a caso, proprio al benessere del suolo la Commissione Ue dedica una delle 5 mission del programma Horizon Europe che partirà nel 2021.
Secondo l’Ipcc in media nel decennio 2007-2016 la attività connesse ad agricoltura, silvicoltura e altri usi del suolo sono state responsabili ogni anno dell’emissione netta di circa 12 miliardi di tonnellate di CO2, circa un quarto dei gas serra globali. Se a queste si aggiungono quelle generate dal settore dall’industria alimentare e dal trasporto degli alimenti, le emissioni stimate per il settore food salgono al 37% del totale. La difesa del suolo, delle foreste, delle risorse marine è un punto essenziale nello sviluppo di una bioeconomia rigenerativa e dunque sostenibile, spiega il Circular Economy Network.
Bioeconomia Ue, 2.300 miliardi di fatturato e 18 milioni di occupati
Peraltro, l’Italia in quanto a bioeconomia non parte certo da zero. L’insieme delle attività connesse alla bioeconomia registra già oggi un fatturato superiore a 312 miliardi di euro. In più, dà lavoro a quasi 2 milioni di persone. Un numero superiore di 177 volte a quello degli impiegati dell’Ilva di Taranto. E a livello europeo, il fatturato globale raggiunge i 2300 miliardi di euro con 18 milioni di occupati.
I comparti che contribuiscono maggiormente al valore economico (63%) e occupazionale (73%) della bioeconomia sono l’industria alimentare, delle bevande e del tabacco e quello della produzione primaria (agricoltura, silvicoltura e pesca). Si tratta di settori di peso rilevante e di attività che hanno un ruolo fondamentale nel rapporto con il capitale naturale: indirizzarli in direzione della sostenibilità è quindi indispensabile.