29 Novembre 2022
Giovanni Vallini è docente di Microbiologia Agraria all'Università di Verona.

Giovanni Vallini (Università di Verona): “Il digestato offre infatti vantaggi ambientali e agricoli, riducendo del tutto o in parte la dipendenza dai fertilizzanti chimici. Immotivate le critiche contro i biodigestori anaerobici e gli impianti di compostaggio”

di Emanuele Isonio

 

Le ultime proteste in ordine di tempo sono state quelle andate in scne durante l’Assemblea Capitolina, quando il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri ha presentato all’aula la proposta di realizzare all’interno del territorio comunale due impianti integrati di digestione anaerobica e compostaggio. Due tasselli cruciali per chiudere il cerchio della gestione dei rifiuti della Capitale, secondo il primo cittadino. Ma da quel giorno, i cittadini delle aree probabilmente interessate dai due impianti hanno moltiplicato manifestazioni e critiche. Eppure, la realizzazione dei biodigestori è fondamentale per sfruttare al meglio un bioprodotto ancora scarsamente noto fra i non addetti ai lavori: il biodigestato.

Per spiegarne caratteristiche, possibilità di impiego e vantaggi abbiamo chiesto aiuto a Giovanni Vallini, professore ordinario di Microbiologia Agraria all’università di Verona e uno dei massimi esperti del settore. “Il tema – conferma a Re Soil Foundation – è di assoluta attualità, soprattutto ora che le tensioni internazionali a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina hanno spinto alle stesse i prezzi dei fertilizzanti chimici. Dal digestato può infatti arrivare un’alternativa valida e con molti aspetti positivi a livello agricolo, ambientale ed economico”.

Costo di alcuni fertilizzanti. Confronto tra febbraio e marzo 2022. FONTE: Agronotizie su dati SILC Fertilizzanti.

Costo di alcuni fertilizzanti. Confronto tra febbraio e marzo 2022. FONTE: Agronotizie su dati SILC Fertilizzanti.

Professor Vallini, riusciamo innanzitutto a spiegare in poche parole che cos’è il digestato?

Il digestato è quella matrice organica con un contenuto variabile di umidità che deriva dal trattamento anaerobico di scarti e residui organici. In pratica, nel processo di digestione anaerobica andiamo incontro a una parziale mineralizzazione degli scarti organici di partenza in completa assenza di ossigeno. Così otteniamo una miscela di gas – il biogas – che contiene quantità variabili di metano tra 50 e 75% a seconda di come è condotta la digestione anaerobica. Alla fine di questo processo, non tutta la sostanza organica caricata nel digestione viene trasformata in biogas. Ciò avviene perché è refrattaria alla degradazione in condizioni di assenza di ossigeno. Terminato il processo di recupero energetico attraverso il biogas, abbiamo in uscita dal digestore una matrice ad alto contenuto organico che contiene anche una quota variabile di elementi di fertilità primaria: principalmente azoto, fosforo e potassio principalmente.

Come funziona il processo di digestione anaerobica e di compostaggio. FONTE: Arpat Toscana.

Come funziona il processo di digestione anaerobica e di compostaggio. FONTE: Arpat Toscana.

Da che cosa si ottiene?

Principalmente da scarti organici di origine diversa. In Italia nella stragrande maggioranza dei casi, quegli impianti trattano reflui zootecnici e scarti di origine agroindustriali. Però il digestato può essere ottenuto anche partendo dalla FORSU (Frazione organica dei rifiuti solidi urbani, ndr) selezionata alla fonte.

Il digestato è quindi a tutti gli effetti un bioprodotto?

Senz’altro. Questo è un punto fermo: il digestato è una matrice che deriva da un processo di disgregazione del rifiuto organico per via biologica.

Quali sono i suoi vantaggi in termini agricoli e ambientali?

Oggi siamo sempre più interessati alla qualità dei suoli. E quindi dobbiamo fare una puntualizzazione importante circa la provenienza del digestato. La qualità della matrice organica di partenza del rifiuto va infatti a influire enormemente sulle caratteristiche del digestato. Questo che vuol dire che il digestato non può avere in assoluto una destinazione in campo agronomico. Io devo infatti fare particolare attenzione alla necessità di evitare l’apporto al terreno di contaminanti.

Il digestato che normalmente deriva da scarti agrozootecnici e da rifiuti organici da raccolta differenziata ha tendenzialmente livelli qualitativi che consentono l’uso diretto in agricoltura.

Per quanto riguarda invece il digestato derivato dal trattamento dei rifiuti solidi urbani tal quali o da altri scarti come i fanghi di depurazione, questi digestati potrebbero non avere gli standard qualitativi che permettono l’uso di agricoltura. Devono quindi essere destinati ad altro tipo di smaltimento.

Consideri che la Ue a 28 Stati (inclusa la UK quindi) produce oggi 180 milioni di tonnellate annue di digestato. Di queste, 120 milioni sono essenzialmente da scarti agrozootecnici: e sono quindi elegibili per l’uso nel terreno. Il resto, derivante da scarti diversi, non possono essere considerati per un uso come fertilizzante agricolo.

Concentriamoci sul primo tipo di digestato: ha dei vantaggi in termini agricoli e ambientali?

Senza dubbio. In una logica di economia circolare, la possibilità di usare il digestato è un‘opzione molto importante. Derivando da una trasformazione biologica che trasforma il residuo organico di partenza, contiene una quantità variabile di sostanza organica oltre ad elementi di fertilità. Entrambi questi aspetti sono ingredienti importanti per far funzionare il terreno agricolo. Ma dobbiamo fare una riflessione: la sostanza organica che io apporto con il digestato al terreno, anche se è refrattaria alla immediata trasformazione biologica è comunque una sostanza fresca. Ha quindi una sua importanza per reintegrare la dotazione organica del terreno. Ma in questo senso sarebbe meglio poter trasformare questa sostanza organica in una matrice ad alto grado di umificazione.

Che vuol dire questo?

Che dobbiamo trasformarla in una una sostanza organica che ha un tempo di vita nel terreno molto prolungato nel tempo. La sostanza organica del digestato, per quanto importante, non ha infatti queste specifiche di durata. Lo è al contrario quella che ottengo attraverso il compostaggio. Per questo, in molti casi si associa la digestione anaerobica al processo di compostaggio, prima di apportare il digestato al terreno. In questo modo si sottopone il digestato a un processo ossidativo, stavolta in condizioni aerobiche. Così lo arricchiamo di sostanza organica.

Questo avviene se in uscita dal digestore anaerobico separo la parte solida da quella liquida. Per ovviare a questo problema, il digestato può essere mescolato ad altri scarti ligneocellusosici e poi essere trasformato in compost.

Il digestato tal quale ha sicuramente una sua valenza in termini di apporto fertilizzante al terreno. Bisogna stare molto attenti a seguire la normativa che prevede un certo contenuto d’azoto all’interno del digestato. Essendo un azoto che potrebbe essere lisciviato e quindi impattare sulle falde, bisogna ovviamente tenere conto dei quantitativi apportati al terreno. In alcune zone non si può superare i 170 kg di azoto l’anno. Ma la legge di riferimento – l.25.2.2016 – specifica bene queste regole. Basta attenervisi.

L’uso di un digestato “buono” di natura agrozootecnica è senz’altro uno strumento importante. Per onestà dobbiamo dire che non riesce a sostituire completamente la fertilizzazione di tipo chimico.

Il suo uso ha anche vantaggi in termini economici?

Senz’altro. Possiamo fare una stima in termini di valore fertilizzante riferendoci alle unità di azoto, fosforo e potassio. Un carro botte da 20 tonnellate di digestato ha un valore che varia tra 250 e 300 euro. Sono senz’altro valori importanti nel quadro dell’economia agraria che deve tenere conto del costo dei fertilizzanti, specialmente in una fase congiunturale come quella odierna.

Lei ha detto che l’uso del digestato non può sostituire totalmente la fertilizzazione chimica. Ma si può stimare quanto l’uso ideale di digestato e compost aiuta a ridurre l’esigenza di prodotti chimici?

In alcune situazioni è possibile sostituire completamente i fertilizzanti chimici. Ma sono casi molto particolari. Penso ad esempio ai terreni vulnerabili: in essi devo limitare l’apporto di elementi fertilizzanti e quindi attraverso il digestato posso assolvere alla quantità massima apportabile al terreno. In altre situazioni, la quota di digestato utilizzabile al posto dei prodotti chimici varia. Molto dipende dal tasso di elementi fertilizzanti contenuti nel digestato. La legge fissa dei limiti minimi in questo senso. Ad esempio, deve contenere una quantità di sostanza organica maggiore del 20%, il fosforo totale deve essere più dello 0,4%, l’azoto totale più dell’1,5%. Tuttavia bisogna vedere su quale coltura vado a usare il digestato. Se lo uso in colture che hanno grandi necessità di nutrienti, posso supplire fino al 50% della necessità di apporto nutritivo annuo. In altre situazioni, dove ho bisogno di apportare azoto e potassio in quantità più elevate, il digestato garantisce tra il 20 e il 30% della necessità di dotazione annua di fertilizzanti.

I vantaggi di questo bioprodotto mi sembrano a questo punto abbastanza chiari. Oltre alla qualità del digestato che si usa, ci sono altri aspetti che possono suggerire cautela nella sostituzione dei fertilizzanti chimici?

Dove l’interesse è mantenere la funzionalità del terreno, dobbiamo tenere conto dei rischi insiti nell’uso del digestato. Abbiamo detto che per uso agricolo, ci riferiamo a digestato derivante da deiezioni zootecniche o da residui agricoli che afferiscono al digestore anaerobico. Ma ho ricordato che il digestato può derivare da FORSU e da altri scarti del settore agroalimentare. Possiamo però usare anche i fanghi di depurazione. Dove allargassimo la possibilità di uso del digestato, dobbiamo tenere conto – e la Ue pone un’allerta su questo – la possibile presenza di inquinanti.

Quali sono questi inquinanti?

Sono i soliti metalli pesanti. Ma anche tutta una serie di sostanze organiche che possono essere associate alla matrice organica di partenza: antibiotici usati in ambito zootecnico, altre sostanze come tensioattivi, o i famigerati PFAS. Ma anche, in ultima battuta, le microplastiche. Io mi posso ritrovare nel digestato anche questo tipo di inquinanti. È chiaro quindi che in un momento in cui giustamente volgiamo la nostra attenzione a un’alternativa alla fertilizzazione chimica, devo essere molto stringente sugli aspetti qualitativi del digestato.

Quanta materia prima da scarti agricoli e deiezioni abbiamo per produrre il digestato “buono” che ci serve?

Non sono in grado di fornirle un dato su scala nazionale. Però posso ricordare che solitamente da una tonnellata di scarti organici di partenza afferito alla digestione anaerobica ottengo 0,85 tonnellate di digestato. Posso già da ora prendere in considerazione l’uso di una serie di biomasse per la produzione da un lato di biogas – recupero energetico estremamente importante anche in questa fase internazionale – e poi di digestato. Fin qui abbiamo posto l’attenzione agli scarti zootecnici. Questi ultimi, soprattutto nelle regioni del Nord, sono oggi già ampiamente avviati a digestione anaerobica.

Poi ci sono tutta una serie di altre matrici organiche, come gli scarti agricoli, che non sono ad oggi assolutamente valorizzate. E abbiamo la disponibilità di colture energetiche che potremmo usare proprio per produrre biomassa da destinare a recupero energetico e poi in ultima battuta del recupero del valore fertilizzante.

Queste sono tutte ipotesi di scenario che passano attraverso un catasto delle biomasse disponibili su base territoriale. Nelle regioni del Nord abbiamo grande abbondanza di scarti organici. Nelle Regioni del Sud invece avremmo difficoltà e ciò produrrebbe un limite oggettivo alla possibilità di ricorrere al digestato.

Bisogna anche dire che come tutti i prodotti a basso valore aggiunto – penso al compost e al digestato – non è immaginabile poterli utilizzare nell’ambito di distanze territoriali che vadano al di là di poche decine di chilometri. Ciò non sarebbe sostenibile né dal punto di vista economico né ambientale.

Un’ultima domanda: credo sia importante parlare anche degli impianti necessari per produrre digestato. Le rassegne stampa ospitano ormai quotidianamente articoli che danno conto di polemiche nei territori che vogliono ospitare digestori e impianti di compostaggio. Hanno senso queste proteste?

Qualsiasi impianto tecnologico ha ovviamente un impatto sul territorio. Ma il problema della realizzazione degli impianti non deve esaurirsi solo nell’idea che una struttura potrebbe potenzialmente arrecare danni.

Una struttura di quel tipo, se ben progettata per svolgere bene il suo lavoro, è una opportunità.

Spesso in Italia le difficoltà incontrate attorno a impianti di compostaggio e digestione anaerobica sono stati ascrivibili a una scarsa capacità di gestione dei processi. Gli impianti di trasformazione biologica dei residui organici sono infatti complessi da gestire.

Quali sono queste difficoltà?

I processi biologici sono molto più complessi di quelli chimici. E questo porta a problemi che causano la reazione delle popolazioni circostanti: emissioni maleodoranti, produzione di materiali finali incompatibili con l’agricoltura. Detto questo, sono convinto che una corretta programmazione di questi insediamenti, basata anche su una stima preventiva di quello che è il fabbisogno del materiale finale nel territorio, è destinata a produrre impatti quasi nulli e vantaggi indubbi.

Certo, come ormai in tutte le operazioni che prevedono insediamenti di impianti, bisogna partire da un rapporto dialogico con le popolazioni. Bisogna spiegare in maniera realistica quali sono i vantaggi che si possono ottenere da questi insediamenti e quali sono gli eventuali rischi connessi con questi impianti. Lo ripeto: i rischi sono minimi se la gestione è fatta in modo corretto. Certo non siamo davanti a impianti che rischiano di esplodere o produrre catastrofi.

Gli inconvenienti eventuali possono essere prevenuti attraverso una loro corretta gestione. Per fortuna, abbiamo a disposizione un’abbondante letteratura tecnico scientifica che permette di operare bene.