Alla fine del secolo, il permafrost superficiale potrebbe esistere solo negli altipiani della Siberia orientale, nell’Alto Artico e nel nord della Groenlandia. Come accadeva 3 milioni di anni fa
di Matteo Cavallito
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La maggior parte del permafrost superficiale potrebbe scomparire da qui al 2100. Lo sostiene uno studio a cura di un gruppo di scienziati provenienti da Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Germania, Giappone, Canada, Paesi Bassi, Francia e Svezia. L’équipe, guidata da Donglin Guo, ricercatore dell’Accademia cinese delle scienze e dell’Università di Nanjing, ha messo a confronto lo scenario climatico attuale con quello di milioni di anni fa. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.
“Il nostro studio indica un’estensione del permafrost superficiale drammaticamente inferiore a quella attuale in un periodo geologico passato caratterizzato da condizioni climatiche analoghe a quelle attese in assenza di un freno al riscaldamento globale”, scrivono gli autori citati in una nota diffusa dal Fairbanks Geophysical Institute dell’Università dell’Alaska.
Lo scenario? Come tre milioni di anni fa
Il termine “permafrost” fa riferimento a quel tipo di suolo perennemente congelato (ma non necessariamente ricoperto di ghiaccio) presente in alcune regioni fredde. Di particolare interesse per gli scienziati è il suo strato superficiale che è soggetto a scioglimento nel periodo estivo. Secondo gli autori, in particolare, alla fine del secolo, il permafrost collocato nei primi 3-4 metri di profondità del suolo potrebbe sopravvivere solo negli altipiani della Siberia orientale, nell’arcipelago canadese dell’Alto Artico e nella parte più settentrionale della Groenlandia,
Si tratterebbe, spiegano ancor ai ricercatori, della stessa situazione riscontrata nel periodo caldo del Pliocene medio, un’epoca distante da noi circa tre milioni di anni. Il paragone si fonda su una simulazione basata sull’analisi di diversi fattori, come la composizione della vegetazione e le caratteristiche del suolo. Da qui le ipotesi sulla temperatura dell’aria in superficie e sull’estensione del permafrost.
Lo studio
“Gli studi su come il permafrost ha risposto storicamente durante i passati periodi caldi della Terra sono utili per esplorare il suo potenziale comportamento futuro”, si legge nello studio. “Qui, combiniamo un modello di indice di gelo superficiale con i dati della seconda fase del Programma di confronto dei modelli del Pliocene per simulare lo stato del terreno superficiale (3-4 metri di profondità) nell’emisfero settentrionale in un periodo compreso tra 3,26 e 3,025 milioni di anni fa”.
A conti fatti, spiegano i ricercatori, le simulazioni “dimostrano che il permafrost era fortemente limitato con un’estensione inferiore del 93% rispetto a quella del periodo preindustriale“. Queste stesse simulazioni, inoltre, “evidenziano risultati simili per i cambiamenti previsti per la fine di questo secolo”. Per lo meno “secondo lo scenario caratterizzato da un livello molto elevato di emissioni”.
Dalla perdita di permafrost conseguenze per il ciclo del carbonio
Secondo Vladimir Romanovsky, ricercatore dell’Istituto geofisico dell’Università dell’Alaska Fairbanks e coautore dello studio, la perdita di permafrost “avrà ampie conseguenze per i mezzi di sussistenza e le infrastrutture umane”. Così come “per il ciclo globale del carbonio e per l’idrologia superficiale e sotterranea”. E le paure, ovviamente, sono legate alla dispersione di CO2 a seguito del disgelo.
A oggi, ricorda una stima citata dall’Università dell’Arizona, il permafrost contiene, su scala globale, “ben 1.500 trilioni di grammi di carbonio (1,5 miliardi di tonnellate, ndr), una quantità doppia rispetto a quella immagazzinata nell’atmosfera”.
Secondo una ricerca realizzata lo scorso anno dagli scienziati dello stesso ateneo USA, i modelli previsionali suggeriscono che alle attuali condizioni di riscaldamento globale, il disgelo interesserebbe in futuro (ma l’orizzonte temporale non è definito) il 20% della superficie del permafrost artico e il 60% di quella del suo omologo alpino.