Uno studio cinese quantifica per la prima volta il peso delle maggiori componenti del carbonio organico del suolo rilasciato a causa dell’aumento delle temperature
di Matteo Cavallito
Il disgelo del permafrost dell’Altopiano del Tibet, favorito dal cambiamento climatico, provoca una dispersione del carbonio organico presente nel suolo e contenuto, in misura maggiore, nella necromassa microbica. Lo rivela uno studio cinese pubblicato sulla rivista Environmental Science & Technology.
L’indagine assume un’importanza particolare rivelando, per la prima volta, il peso delle diverse fonti organiche dell’elemento presente nel terreno. Studi precedenti, sottolinea una nota dell’Accademia delle Scienze Cinese, avevano dimostrato il legame tra l’aumento delle temperature e la perdita dell’elemento dal terreno, ma la composizione e le caratteristiche del carbonio organico stesso non erano ancora state descritte nel dettaglio.
Il primato dei microbi
I ricercatori, guidati dal docente dell’Istituto nord-occidentale dell’ambiente e delle risorse dell’Accademia, Kang Shichang, hanno raccolto campioni di suolo nell’Altopiano tibetano nord-orientale per studiare le variazioni di diversi componenti del carbonio organico provenienti da due fonti principali: i microrganismi e le piante.
Per stimare il peso delle diverse componenti, gli studiosi hanno preso in considerazioni due “marcatori”, ovvero gli aminozuccheri, associati ai microbi, e i fenoli della lignina, presenti invece nella massa vegetale.
Lo studio ha potuto così “fornire prove dirette che quello della necromassa microbica rappresenta la fonte principale del carbonio perduto in una colata di disgelo retrogressiva del permafrost”.
La ricerca
In sintesi: “Il disgelo ha portato a una diminuzione del 61% del carbonio organico del suolo”, spiega la ricerca. “Come evidente nei livelli degli aminozuccheri (con una concentrazione media di 55,92 milligrammi per 1 grammo di carbonio organico) e dei fenoli della lignina (15 mg per grammo), l’elemento della necromassa microbica costituisce la componente maggioritaria di questa perdita con una quota del 54%”.
I ricercatori, inoltre, hanno scoperto come le variazioni degli aminozuccheri fossero principalmente legate al pH, agli apporti vegetali e al contenuto di umidità del suolo. Quest’ultimo fattore influirebbe anche sulle variazioni dei fenoli della lignina.
Il permafrost alpino è più vulnerabile al clima
Il termine “permafrost”, come noto, fa riferimento a quel tipo di suolo perennemente congelato (ma non necessariamente ricoperto di ghiaccio) presente in alcune regioni fredde. A oggi, ricorda una stima citata dall’Università dell’Arizona, questo genere di terreno contiene, su scala globale, “ben 1.500 trilioni di grammi di carbonio (1,5 miliardi di tonnellate, ndr), una quantità doppia rispetto a quella immagazzinata nell’atmosfera”.
Buona parte di questo ammontare si colloca nelle regioni artiche mentre una quota minoritaria, 85 milioni di tonnellate, è concentrata nel permafrost alpino di cui l’altopiano tibetano rappresenta l’area più estesa.
Il problema, ha sottolineato una ricerca realizzata lo scorso anno dagli scienziati dello stesso ateneo USA, è che i territori alle latitudini più basse sono maggiormente vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico rispetto a quelli situati presso i poli. I modelli previsionali, in particolare, suggeriscono che alle attuali condizioni di riscaldamento globale, il disgelo interesserebbe in futuro (ma l’orizzonte temporale non è definito) il 20% della superficie del permafrost artico e il 60% di quella del suo omologo alpino.