16 Dicembre 2020

Recuperare i semi storici per sfruttare la capacità millenaria della natura di adattarsi al territorio. Dalla Spagna al Brasile le varietà antiche sono al centro di una strategia vincente

di Matteo Cavallito

Ascolta “Il futuro dell’agricoltura nei semi tradizionali” su Spreaker.

Gli allevamenti intensivi e le monoculture, soprattutto quando caratterizzate dall’impiego di semi geneticamente modificati, rappresentano una minaccia per la biodiversità. Da qualche tempo, tuttavia, sembrano emergere con forza alcune buone pratiche per il recupero della ricchezza del suolo. Iniziative diverse che riguardano differenti anelli della catena produttiva e distributiva del comparto food. Come dire, dal campo alla tavola. Promuovendo la sostenibilità agricola e valorizzando una risorsa troppo spesso sottovalutata: i semi tradizionali.

I pericoli delle soluzioni transgeniche

Il tema è emerso di recente in occasione di un forum promosso da Slow Food in occasione dell’edizione 2020 di Terra Madre. «I semi tradizionali rappresentano uno dei sistemi per far fronte alla crisi climatica» sostiene l’organizzazione che propone, al tempo stesso, di «puntare sempre più sulla biodiversità esistente anziché lavorare sulle sementi transgeniche». Il fatto, nota Jordi Limón Marsa, proprietario e chef di due ristoranti a Barcellona, è che i consumatori «spesso non conoscono l’origine dei semi» ignorando ad esempio se questi ultimi siano stati trattati.

Il rischio, a quel punto, è di trovarsi di fronte a prodotti originatisi a partire da varietà ibride, frutto della selezione artificiale di alcune caratteristiche. Oppure transgeniche, ovvero modificate con l’innesto di geni provenienti da altre piante o animali. In entrambi i casi i semi non possono essere recuperati e il risultato è che gli agricoltori si trovano a «dipendere» dai laboratori e dalle aziende che li hanno brevettati.

A Barcellona un orto della tradizione

Limón Marsa, da parte sua, ha deciso di perseguire una strategia differente. Nei suoi ristoranti vengono infatti utilizzate solo le verdure coltivate nell’orto di proprietà dove si impiegano i semi tradizionali. Di che si tratta? Essenzialmente di varietà vecchie di migliaia di anni e vincolate alle zone di produzione. Quello che accade, in sintesi, è che uno stesso ceppo finisce per sviluppare caratteristiche differenti per adattarsi al diverso tipo di terreno e alle condizioni climatiche. È il caso, ad esempio, di una nota famiglia di pomodori cui appartengono le varietà conosciute come San Marzano, pomodoro Pera e Corno delle Ande coltivate rispettivamente in Italia, Spagna e Perù. «Stesso ceppo ma diverso adattamento al territorio», prosegue lo chef. Che aggiunge: «L’aspetto positivo è che questi semi non si possono brevettare e possono essere ripiantati all’infinito».

Dai semi un assist alla biodiversità

L’uso di questi semi non contribuisce soltanto alla conservazione delle varietà antiche ma diventa uno strumento utile per il recupero della biodiversità e della salute dei terreni. È il caso degli interventi sui suoli degradati, ovvero su quei terreni vittime della riconversione o della coltura intensiva. Molto interesse, in questo stesso, sta suscitando ultimamente l’attenta opera di ripristino nel Cerrado brasiliano, una delle aree agricole più importanti del mondo. Qui un’organizzazione che coinvolge scienziati, ambientalisti e veri e propri “collezionisti” di semi tradizionali si sta impegnando per ripopolare i terreni con la loro vegetazione originale. Una massiccia attività di recupero dell’intero suolo brasiliano, nota una ricerca, potrebbe richiedere l’impiego di 15.600 tonnellate di semi tradizionali. L’iniziativa genererebbe fino a 57mila posti di lavoro oltre a redditi complessivi pari a 146 milioni di dollari.