Presentato il 7° rapporto “Bioeconomia in Europa” di Intesa San Paolo, Cluster Spring e Assobiotec. Il valore complessivo nel 2020 ha sfiorato i 320 miliardi. Il calo di fatturato causato dalla pandemia è inferiore rispetto all’intero sistema economico. E aumenta il suo peso in termini di produzione. Prova di una maggiore adattabilità alle crisi
di Emanuele Isonio
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Vale 317 miliardi, ha 2 milioni di occupati e durante i mesi di crisi causata dall’emergenza Covid ha registrato un calo meno rilevante rispetto al totale dell’economia. Una prova della sua resilienza di fronte alla sfida della pandemia. I numeri emergono dal 7° Rapporto “La bioeconomia in Europa” redatto dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa San Paolo in collaborazione con il Cluster Spring e Assobiotec-Federchimica.
In Italia, in particolare, nel 2020 la bioeconomia (ovvero l’insieme delle attività produttive che utilizzano risorse biologiche, inclusi gli scarti, per produrre beni ed energia) ha perso nel complesso il 6,5% del valore della produzione. Si tratta comunque di un calo inferiore rispetto all’intera economia. Nello stesso periodo quest’ultima ha infatti subito una contrazione dell’8,8%. Il peso della bioeconomia in termini di produzione è quindi salito al 10,2% rispetto al 10% del 2019 e al 9,9% del 2018. Un segno che ha reso ancora più evidente – casomai ce ne fosse bisogno – la necessità di ripensare il modello di sviluppo economico in una logica di maggiore attenzione alla sostenibilità e al rispetto ambientale. Peraltro la particolare resilienza della bioeconomia non è una prerogativa solo italiana.
L’adattabilità allo shock pandemico si registra in tutta Europa
In tutti i paesi europei il valore della bioeconomia ha evidenziato un calo meno rilevante rispetto al totale dell’economia: -4,3% per il Regno Unito, -3,1% per la Germania, -3% per la Spagna, -2,3% per la Francia e +3,3% per la Polonia. “Ha evidenziato una maggiore adattabilità allo shock pandemico, grazie alla natura essenziale di molte delle attività di questo metasettore, con risultati che dipendono sia dalla severità della pandemia e delle relative misure di contenimento sia dalla differente composizione della bioeconomia nei diversi Paesi” spiega Laura Campanini, responsabile finanza e servizi pubblici locali
Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo.Le performance settoriali risultano, infatti, molto diversificate. La filiera agro-alimentare, che in Italia rappresenta oltre il 60% del valore della bioeconomia, è risultata meno colpita dalla crisi generata dalla pandemia (nonostante la chiusura della ristorazione a valle). Stesso discorso per le utilities (energia, acqua, rifiuti) e la filiera della carta (grazie al sostegno dei prodotti per utilizzi sanitari e del packaging, visto il boom del commercio online). Il sistema moda, che riveste un ruolo particolarmente importante per l’Italia, è invece il settore che registra la flessione più accentuata, a causa della chiusura della fase distributiva, del blocco negli arrivi di turisti stranieri e delle modifiche nelle preferenze d’acquisto dei consumatori.
La bioeconomia nelle regioni italiane
Nel Rapporto viene proposta, per la prima volta, la stima del valore della bioeconomia, in termini di valore aggiunto e occupati, nelle regioni italiane. Le stime, realizzate in collaborazione con SRM-Studi e Ricerche per il Mezzogiorno, evidenziano un ruolo particolare della bioeconomia nelle regioni del Nord-Est e del Mezzogiorno, con un peso sul valore aggiunto regionale dell’8,2% e 6,7% rispettivamente (anno 2018). Sotto la media italiana (6,4%) invece il peso nel Nord-Ovest (5,3%) e nel Centro (5,7%).
Ai primi posti per valore aggiunto rispetto all’economia regionale si posizionano Basilicata e Trentino-Alto Adige, con un’incidenza del 9,3%. Seguono Toscana, Veneto ed Emilia-Romagna, con un peso compreso tra l’8% e l’8,7%. Sotto la media nazionale invece la Lombardia (5,4%), Piemonte, Campania e Sicilia.
A livello regionale, peraltro, emergono delle interessanti specializzazioni territoriali: “nel Nord-Ovest spiccano ad esempio i settori a più elevato contenuto tecnologico, come la farmaceutica e la chimica bio-based” rivela Serena Fumagalli, economista della Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo. “Nelle regioni del Nord-Est emerge anche la rilevanza della filiera del legno e dei mobili, mentre nel Centro spicca soprattutto il peso della filiera della carta e della farmaceutica. Nel Mezzogiorno infine la filiera agro-alimentare rappresenta quasi la totalità della bioeconomia. Non mancano comunque esperienze nei settori a più alto contenuto tecnologico, come conferma la specializzazione di alcune province nel settore farmaceutico”.
Lo sviluppo della chimica bio-based
Le specificità del tessuto produttivo delle diverse regioni italiane si rispecchiano anche nell’interesse verso le nuove frontiere della chimica bio-based. Ovvero, quella parte della chimica che utilizza materie prime biologiche rinnovabili invece che fossili. L’analisi mette in luce un sistema dinamico e complesso: più di 830 soggetti, dalle 84 Università e centri di Ricerca (pubblici e privati) alle circa 730 imprese (con più di 500 start-up).
Per quanto riguarda le imprese, emerge un mondo ricco e variegato. A un nucleo importante di grandi imprese si affiancano numerose piccole e medie aziende e un rilevante numero di start-up innovative. Una prova della dinamicità e innovatività di questo campo, confermate anche dalla elevata quota di soggetti che operano nel settore a monte della Ricerca e Sviluppo.
“Molti prodotti chimici bio-based, oltre ai vantaggi in termini di emissioni legati alla materia prima (particolarmente importanti nel caso di utilizzo di sottoprodotti di altre lavorazioni di reflui o rifiuti), sono anche biodegradabili e compostabili alla fine del loro ciclo di vita, in conformità agli standard internazionali” spiega Stefania Trenti, responsabile dell’Ufficio Industry della Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo. “La chimica bio-based contribuisce così a diminuire in maniera significativa l’impatto complessivo sull’ambiente, grazie anche alla possibilità di riprogettare i prodotti a valle in un’ottica di eco-design complessivo, elemento fondamentale della bioeconomia circolare. In Italia rappresenta circa l’8% del totale del settore chimico”.