20 Agosto 2021

David Chiaramonti (Politecnico Torino): “Il biochar è come una spugna che permette di trattenere acqua e nutrienti oltre che riportare carbonio nel suolo. Un valido aiuto contro i cambiamenti climatici, che aumenta anche la resilienza dei terreni agricoli. Per diffonderne l’uso, ripensiamo gli aiuti all’agricoltura e leghiamoli alla quantità di carbonio sequestrata nel terreno”

di Emanuele Isonio

 

Ascolta “Il biochar un prodotto su cui investire contro la desertificazione” su Spreaker.

Il biochar è un prodotto che sta iniziando a suscitare un certo interesse fra gli addetti ai lavori in ambito agricolo. David Chiaramonti, docente di Economia dell’Energia e Sistemi per l’energia e l’ambiente al Politecnico di Torino, è uno dei massimi esperti in Italia di questo nuovo prodotto. A lui abbiamo quindi chiesto di far luce sulle peculiarità di questo materiale.

Professor Chiaramonti, innanzitutto iniziamo a spiegare che cos’è il biochar?

Il biochar è un prodotto di origine biologica vegetale, realizzato attraverso un processo di carbonizzazione o più tecnicamente di pirolisi lenta di materie prime organiche. In primis di biomasse lignocellulosiche ma non solo. Il prodotto che ne risulta è essenzialmente a matrice carbonio, altamente poroso e con molte tecnicazioni. Tra tutte, una delle più interessanti è l’applicazione in campo, in virtù delle sue proprietà: trattenere l’umidità, distribuire i nutrienti nel suolo in modo più lento, offrire un ambiente di vita dei microrganismi del suolo.

Quali sono i vantaggi di questo carbone vegetale?

Se ci concentriamo nell’uso nel suolo, dobbiamo immaginare il biochar come una spugna con le pareti di carbonio. La sua superficie interna è molto elevata. Un grammo di biochar ha normalmente una superficie tra i 100 ed i 200 metri quadri, l’equivalente di un appartamento di dimensioni medio grandi. Questa struttura permette di trattenere l’acqua e di rilasciarla lentamente. In questo modo, la pianta invece di vedere dilavare l’acqua piovana o di irrigazione attraverso il terreno, la trova mantenuta nei primi 30 centimetri di suolo dove normalmente le radici delle piante di impiego agricolo si collocano, riesce quindi a mantenere una buona idratazione. Questo ovviamente permette di contrastare il cambiamento climatico e la desertificazione che rende molto difficile la vita delle nostre piante e coltivazioni agricole, specialmente nelle prime fasi della loro crescita. Contestualmente i nutrienti, essendo disciolti nell’acqua, vengono rilasciati in modo più lento.

Nel processo di pirolisi la materia viene riscaldata a basse temperature, si decompone e dà origine al prodotto finito. Immagine: dalla presentazione di David Chiaramonti, Ecomondo Digital Edition 2020

Nel processo di pirolisi la materia viene riscaldata a basse temperature, si decompone e dà origine al prodotto finito. Immagine: dalla presentazione di David Chiaramonti, Ecomondo Digital Edition 2020

E i suoi limiti?

Bisogna tenere presente che le caratteristiche del biochar dipendono essenzialmente da due fattori: dalla materia prima utilizzata (ad esempio legno, paglia, residui agricoli, digestato, frazione organica) e dal processo (che tipo di impianto, di pirolisi utilizziamo e a che temperature e con che tempi d’esercizio facciamo lavorare la macchina). Determinate materie prime possono produrre un biochar con un contenuto di ceneri eccessivo. O, a seconda di come viene estratto dalla macchina, può avere un contenuto più o meno elevato di catrami che potrebbero condensare nel char e da questo essere assorbiti. Come tutti i processi biologici e termici, deve essere fatto in modo corretto e possibilmente partendo da matrici migliori. Questi problemi vanno considerati ovviamente se l’obiettivo del biochar è l’uso agricolo. Se invece l’obiettivo non è argonomico ma il mero sequestro di carbonio nel suolo, le caratteristiche chimico-fisiche del char prodotto divengono meno rilevanti.

Lo scorso anno è stato pubblicato uno studio , condotto da Jennifer Kroeger del Dipartimento di Scienze Planetarie, Terra e Ambiente dell’Università di Houston insieme ad altri colleghi. In questo studio si calcolavano i vantaggi in termini di trattenuta idrica del biochar. E si concludeva che attraverso il biochar si potrebbe avere un aumento del quantitativo d’acqua trattenuto nel suolo superiore al 70%. Sono numeri importanti. Ma valgono solo per alcuni tipi di suoli?

Ottima domanda. Il sistema suolo-biochar è un sistema unico. Suoli sabbiosi o, al contrario, suoli argillosi suggeriscono l’impiego di biochar di pezzatura diversa. Esistono due tipi di porosità: quella l’interna al pezzettino di carbone (quella che citavo prima). E poi c’è una porosità tra le particelle.

Un tipo di suolo sabbioso tende a essere estremamente drenante ed a perdere rapidamente l’acqua ricevuta attraverso pioggia e irrigazione. In quel caso dobbiamo trattenere l’umidità attraverso un’elevata superficie, quindi si preferisce una pezzatura più piccola del char ed una elevata macroporosità interna.

All’estremo opposto, un terreno argilloso tende a trattenere acqua in superficie. Allora dobbiamo inserire particelle di carbone un po’ più grandi, di pezzatura cioè maggiore, che vadano a costituire una macroporosità tale da permettere all’acqua di fluire all’interno del terreno. Suolo e biochar, al pari di altri materiali che si introducono nei suoli per migliorarne fertilità e salute, sono un unico complesso: in questo ambiente devono poter trovare le condizioni ideali di vita i microorganismi essenziali per avere un suolo sano e consentire alle piante di ottenere tutti i nutrienti necessari e crescere in modo migliore rispetto ai terreni poveri desertici. è un percorso che riguarda tutta l’area del Mediterraneo: abbiamo 8,5 milioni di ettari in via di marginalizzazione e desertificazione secondo i dati del progetto Europe S2BIOM, del JRC e dell’Agenzia europea dell’Ambiente.

desertificazione siccità europa

La situazione della desertificazione in Europa – 3a decade maggio 2021. Indicatore combinato di siccità. FONTE: JRC European Drought Observatory (EDO) giugno 2021.

Il tema della desertificazione è sicuramente di grande attualità. Non a caso, la Ue ha deciso di dedicare al suolo una delle mission del programma Horizon. Ma quanto biochar va inserito nei terreni per ottenere effetti significativi nei terreni?

Altra domanda molto giusta che non ha una risposta univoca. Sempre guardando agli effetti agronomici e non al sequestro di carbonio, dipende di nuovo dal tipo di suolo e dalle coltivazioni che su questi terreni vengono realizzate. C’è una ampissima letteratura di casi studio molto diversi. Normalmente la fascia tipica di applicazione nel suolo oscilla tra le 5 e le 10 tonnellate per ettaro. Consideriamo che nei primi 30 centimetri di suolo ci sono migliaia di tonnellate di terreno. Quindi parliamo comunque di piccole frazioni rispetto alla massa di suolo che stiamo considerando. Ovviamente ci sono prove con applicazioni più elevate (40-50 tonnellate per ettaro) e più basse (2 tonnellate/ettaro). Gli effetti sono ovviamente più difficili da quantificare nel breve termine, nel caso dei valori di impiego più bassi.

Tutto questo poi dipende dal sistema regolatorio che gestisce queste azioni: l’agricoltura riceve normalmente contributi comunitari espressi per unità di superficie. In questo caso avrebbe più senso erogarle in funzione delle tonnellate di carbonio fisso che vengono applicate al suolo. Questo consentirebbe di stare sulle 5-10 tonnellate di biochar distribuito e realizzare un’economia di applicazione con effetti agronomici evidenti.

Prima di arrivare al tema degli interventi normativi, concentriamoci un attimo sul capitolo costi: ovviamente è un tema da non sottovalutare per sperare di diffondere l’uso di una nuova sostanza in ambito agricolo. Il biochar è uno strumento economicamente sostenibile nel business plan di un’azienda?

Questo è esattamente il punto su cui stiamo più intensamente lavorando ed è connesso al sequestro di carbonio. Secondo me è molto difficile generalizzare e dare un valore al biochar in funzione degli effetti agronomici, perché questi variano molto in funzione del suolo, del tipo di piante e del microclima. Molto più facile è dare valore al carbonio fisso. Tecnicamente parliamo di “long lived carbon sequestration” quando si ha un un tempo di sequestro superiore ai 100 anni. Oggi i soggetti obbligati al sistema di crediti di carbonio europeo ETS (emission trade scheme) pagano ben oltre i 50 euro a tonnellata di CO2 che loro sequestrano. Con una tonnellata di carbone, abbiamo circa 3,67 tonnellate di CO2.

Semplificando, possiamo dire che se il meccanismo regolatorio lo consentisse, i crediti generati sarebbero dell’ordine di grandezza di circa 150 euro per ogni tonnellata di carbone fisso immesso nel suolo. Il lavoro che stiamo cercando di fare è creare una connessione tra i mercati dei soggetti obbligati (acciaio, cemento, petrolchimica, aviazione) con chi può generare questi crediti attraverso cosiddette nature-based solutions, quali il biochar. In particolare, ovviamente l’agricoltura.

In pratica un approccio che dovrebbe produrre effetti positivi per tutti?

È un accoppiamento win-win perché da una parte portiamo via e blocchiamo carbonio nel suolo, dall’altra lo collochiamo nei primi 30 centimetri del suolo, quelli essenziali per la vita microbiologica e  per la crescita delle piante. Questa soluzione è cioè vincente da entrambi i lati: dobbiamo però creare un meccanismo che colleghi questi due mondi. Mercati e potenziali produttori, ovvero gli agricoltori.

Tutto questo poi ben si sposa con l’uso contestuale del compost, che è carbonio più labile e più rapidamente pronto per l’uso da parte della pianta. Il biochar è uno strutturante: determina le funzioni del suolo e ha una funzione diversa da quella del compost.

Torniamo quindi agli interventi normativi, a livello nazionale e comunitario: ne servono di nuovi per incentivare questo prodotto e diffonderne l’uso su più ampia scala?

Penso piuttosto all’adattamento di sistemi esistenti: il mercato al quale possiamo fare maggiormente riferimento è quello del carbonio. Noi abbiamo un obiettivo estremamente ambizioso di decarbonizzazione dell’atmosfera: centrare una riduzione del 55% delle emissioni di gas serra necessita di azioni cosiddette carbon negative, come già evidenziato sin dalla COP21 di Parigi.

Dal punto di vista normativo, è giusto iniziare ad aprire un dialogo tra gli elementi che già esistono come il meccanismo di crediti di carbonio ETS e l’agricoltura. Il dialogo è molto difficile perché la grandissima industria (cioè i soggetti obbligati al sistema ETS, Emission Trading Scheme) ed il comparto agricolo sono due settori molto lontani tra loro. Però è proprio lì che dobbiamo riuscire a costruire un ponte. A quel punto possiamo creare le condizioni economiche perché il biochar venga impiegato nel suolo con benefici per l’agricoltura. Il potenziale è elevatissimo. Quindi sono tendenzialmente molto ottimista. Però ancora un po’ di strada va fatta.