I prati stabili svolgono un ruolo decisivo per le produzioni alimentari e la mitigazione climatica. Sulle Alpi italiane il 45% di questi territori è stato abbandonato nello spazio di mezzo secolo. Un progetto di Slow Food tenta di invertire la rotta
di Matteo Cavallito
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Diffusi, naturali, ricchi di biodiversità: sono i prati stabili, gioielli sottovalutati eppure decisivi nell’equilibrio dell’ecosistema. Veri e propri tappeti verdi, che si distinguono dagli omologhi a semina per la loro spontaneità. Ma non per questo, è bene sottolinearlo, destinati a sopravvivere senza la cura dei loro custodi, a cominciare dagli animali da pascolo – come bovini, pecore e capre – e dagli insetti, come api, farfalle, vespe e coccinelle.
Negli ultimi sessant’anni, dicono le statistiche, l’Italia ne ha persi moltissimi a causa dello spopolamento montano, della diffusione delle monocolture e della cementificazione del suolo. Da qui la necessità di tutelarli e rigenerarli con nuove iniziative capaci di coinvolgere la filiera del cibo. È in questo scenario che si colloca il progetto “Salviamo i prati stabili e i pascoli” , l’operazione lanciata da Slow Food per aiutare gli allevatori di pianura a riconvertire i terreni sfruttati e sostenere i loro colleghi di montagna nella protezione di queste terre “riconoscendo e valorizzando il loro prezioso lavoro di conservazione ambientale”.
L’importanza dei prati stabili
Sono molteplici le funzioni svolte dai prati stabili. Oltre a conservare un’ampia biodiversità, questi habitat hanno un ruolo decisivo nella garanzia della salute del bestiame. Se nutriti con erba e fieni provenienti da questi luoghi, infatti, gli animali producono un latte ricco di vitamine e altri antiossidanti. Fondamentale anche l’equilibrio garantito al territorio dal momento che un prato ben gestito riduce i rischi di incendio e di slavine.
I territori stabili, inoltre, sono serbatoi di carbonio particolarmente efficaci. La capacità delle radici di trattenere l’elemento, in particolare, limita la dispersione di quest’ultimo anche in caso di incendio. Da non sottovalutare, infine, il loro legame con la cultura pastorale, l’identità delle comunità locali e i prodotti di eccellenza del territorio.
In 50 anni l’Europa ha perso il 16% dei suoi pascoli
Il problema, però, è che il progressivo spopolamento della montagna e delle aree di alta collina e la diffusione dell’allevamento industriale (tradotto: animali in stalla, meno erba e più mangimi a base di cereali) ha prodotto conseguenze evidenti. Dal 1969 a oggi, rilevano i promotori del progetto, l’Unione Europea ha perso il 16% dei suoi pascoli. Sulle Alpi italiane la situazione è ancora peggiore: meno 45% in cinquant’anni.
“In Italia i prati stabili si collocano soprattutto in collina e in montagna estendendosi per circa 32 mila chilometri quadrati”, ha spiegato Giampiero Lombardi, docente presso il Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università di Torino, intervenendo nelle scorse settimane in occasione di Terra Madre – Salone del Gusto 2022, il tradizionale evento organizzato da Slow Food.
“Negli ultimi 30 anni”, ha aggiunto, “la loro superficie totale si è ridotta all’incirca del 25%”. Il cambiamento di modelli agricoli e la forte urbanizzazione sono stati fattori decisivi nel cambiamento d’uso del suolo. In molti casi, inoltre, i prati stabili sono stati semplicemente lasciati all’incuria. “Questo fenomeno è ancora più evidente in alcune regioni come Veneto, Molise e in Liguria. In quest’ultima, in particolare, le terre abbandonate rappresentano il 90% della superficie regionale”.
Ambienti decisivi per il clima
Nel contesto odierno, caratterizzato dall’emergenza climatica, l’importanza dei prati stabili appare ancora più evidente. “Il suolo”, spiegano i promotori, “è il più grande serbatoio di carbonio terrestre, pari a circa 3 volte il contenuto di carbonio dell’atmosfera, quattro volte l’ammontare delle emissioni antropogeniche cumulate e 250 volte l’ammontare delle emissioni annuali da combustibile fossile”. E i pascoli, da parte loro, “sono ecosistemi in grado di trasferire in modo altamente efficiente la CO2 dell’atmosfera al suolo e alle radici”.
I pericoli, però, sono dietro l’angolo. La conversione delle praterie in terreni agricoli coltivati in modo convenzionale può determinare una riduzione significativa degli stock di carbonio del suolo (meno 60% circa, secondo alcune stime).
Per contro, la conservazione di questi territori contribuisce “al raggiungimento della neutralità carbonica, perché il pascolo compensa le emissioni prodotte dagli animali che ne usufruiscono grazie all’effetto sequestro nel sottosuolo della CO2”. Secondo le rilevazioni di Slow Food, in particolare, nel confronto con quelle convenzionali, le produzioni da prato stabile di latte, formaggi, carne e uova comportano un calo delle emissioni compreso tra il 30% e l’83%.
Gli obiettivi del progetto
Per garantire la conservazione dei prati stabili e aumentare progressivamente la loro superficie, i promotori del progetto puntano a coinvolgere in primo luogo allevatori e produttori valorizzando le loro creazioni (latte e formaggi e carne). Ma anche i consumatori disseminando conoscenza e consapevolezza.
Le attività attualmente in corso includono la realizzazione delle linee guida per la selezione dei produttori e la stesura di un disciplinare per la gestione del prato stabile e la realizzazione di latte e derivati provenienti da animali al pascolo.
I ricercatori coinvolti sono inoltre impegnati nella mappatura delle prime realtà virtuose in Italia. L’elenco delle operazioni include l’installazione di apiari, la semina di specie vegetali attrattive per gli impollinatori e la creazione di etichette per i prodotti derivanti dai prati stabili. Per il 2023, infine, sono previste, tra le altre, attività di formazione per i produttori e iniziative di valorizzazione dei formaggi e del latte nei punti vendita.