13 Ottobre 2021

Cambiare il metodo di produzione di un piatto tradizionale della Nigeria per proteggere alberi e clima. La lezione di un impianto a energia solare in un Paese devastato dal disboscamento

di Matteo Cavallito

 

Ascolta “Nigeria: la lotta alla deforestazione passa per la carne secca” su Spreaker.

È uno dei piatti tradizionali più celebri della Nigeria. Ma da qualche tempo è anche il simbolo di una best practice fortemente evocativa. Il kilishi, una specialità a base di carne secca speziata, rappresenta una fonte di sostentamento economico per molte imprese familiari del Paese. La sua produzione, tuttavia, si è rivelata negli anni fortemente problematica a causa del significativo impatto ambientale e delle scarse condizioni igieniche. Per ovviare al problema, le autorità locali, hanno intrapreso un’iniziativa senza precedenti: la costruzione di un impianto di produzione alimentato a energia solare nel villaggio di Yaba, un insediamento situato all’interno dello Stato di Katsina, nella Nigeria settentrionale. La scelta, assunta con il sostegno della Banca Mondiale, rappresenta un primo passo nel contrasto a un fenomeno sempre più preoccupante: la crescente deforestazione che tormenta il Paese.

La produzione tradizionale? Insostenibile

Il kilishi, ha ricordato la Banca Mondiale “è composto essenzialmente da sottili strisce di carne cruda condita con spezie, affumicata su fuoco di legna e fatta essiccare all’aperto, dove è esposta a mosche, uccelli, polvere e altre particelle trasportate dal vento. Il processo è laborioso e richiede da due a tre giorni, o anche di più durante la stagione delle piogge”. La produzione tradizionale, in altre parole, non rispetta adeguati standard di igiene. Ma c’è dell’altro: “Questo metodo di essiccazione è anche insostenibile – osserva ancora l’organismo internazionale – visto che 100 chili di Kilishi richiedono l’uso di 20 chili di legna da ardere”.

Lanciato nel 2020, il programma – inserito nel più ampio Nigeria Erosion and Watershed Management Project, un’iniziativa per la tutela del suolo promossa dalla stessa World Bank – ha portato alla costruzione di una fabbrica dove l’intero processo produttivo si svolge in ambiente protetto e i pannelli solari sostituiscono legna e carbone. Un segnale importante, sebbene su scala ridotta, in un mondo in cui l’industria alimentare contribuisce ogni anno a circa un terzo delle emissioni causate dall’uomo. Ma anche un’opportunità economica in un Paese come la Nigeria. Che, nonostante la crescita in atto da tempo, affronta tuttora un problema di diffusa povertà.

Clima e deforestazione minacciano la Nigeria

La scelta della tecnologia fotovoltaica appare emblematica. La rinuncia all’utilizzo del legno, infatti, assume un significato particolare per la stessa Nigeria, vittima da almeno due decenni di una crescente deforestazione. Secondo le stime di Global Forest Watch, un’iniziativa di monitoraggio promossa dall’organizzazione non profit statunitense World Resources Institute, infatti, nel 2020 il Paese ha perso 97.800 ettari di foreste naturali. Dall’inizio del XXI secolo il conto delle perdite supera il milione di ettari, pari al 10% della copertura arborea. 141mila di questi erano costituiti da foreste primarie. A conti fatti, il disboscamento avrebbe generato emissioni aggiuntive per 527 milioni di tonnellate di CO2.

Più produzione, meno impatto

L’impianto produttivo, segnala ancora la Banca Mondiale, “ha ridotto il tempo di produzione da 3-4 giorni a tre ore nei periodi più soleggiati”. Senza contare l’aumento della capacità produttiva, fissata oggi a 1,6 tonnellate di carne al giorno (mentre “per trattare la stessa quantità secondo il metodo tradizionale sarebbero stati necessari due macellai attivi per un paio di settimane”). L’aumento della produzione consente ora di soddisfare una domanda più ampia raggiungendo così altre regioni del Paese e alcune delle maggiori città come Abuja e Lagos.

La catena produttiva premia le donne

I miglioramenti, infine, si noterebbero anche sugli altri livelli della catena produttiva. Con importanti ricadute sul piano sociale. Sebbene i lavori di macelleria siano tradizionalmente affidati agli uomini, la coltivazione e la produzione degli ingredienti che accompagnano la carne è quasi esclusivamente in mano alle donne. Che, negli ultimi tempi, beneficiano dell’aumento dei prezzi associato alla crescita della domanda. “Le donne hanno ottenuto una fonte di reddito lavorando a casa per rifornire la fabbrica”, spiega Nasiru Hamza, presidente e portavoce della comunità del villaggio di Yaba. “In pratica sono le le lavoratrici ad avere il controllo dell’intero investimento”.