27 Gennaio 2023

Secondo uno studio britannico, nel suolo soggetto a impatto umano il ripristino degli organismi che vivono sottoterra è più lento rispetto a quello dei loro omologhi di superficie. Per tutelare la biodiversità occorrono nuove prospettive nella ricerca

di Matteo Cavallito

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Il cattivo uso del suolo produce danni evidenti all’intera fauna che lo abita. Ma le specie viventi sotterranee – come invertebrati e batteri, ad esempio – sembrano pagare un prezzo più alto rispetto alle omologhe di superficie. Impiegando, di fatto, più tempo per sperimentare il ripristino delle condizioni di partenza. È l’ipotesi suggerita da una ricerca pubblicata sulla rivista BMC Ecology and Evolution.

L’indagine, a cura di un gruppo di scienziati guidato da Victoria J. Burton, ricercatrice dell’Imperial College di Londra, evidenzia al tempo stesso come i modelli analitici più usati per spiegare l’impatto del cambiamento d’uso dei terreni sugli organismi presenti in natura non siano sempre adatti a descrivere gli effetti di questo fenomeno nel sottosuolo.

“Lo sfruttamento del suolo è uno dei principali fattori di cambiamento della biodiversità in tutto il mondo, ma gli studi si sono concentrati prevalentemente sulle specie che vivono fuori terra”, si legge nella ricerca. “Gli effetti sugli organismi del terreno sono meno conosciuti, nonostante l’importanza assunta da questi esseri viventi nel garantire il funzionamento degli ecosistemi”.

Lo studio

Analizzando 19.651 campioni di suolo superficiale e 7.155 omologhi raccolti in profondità in diverse zone caratterizzata da differenti usi del terreno, gli studiosi hanno analizzato le popolazioni di vertebrati, invertebrati, piante e funghi. L’indagine ha preso in esame aree come campi agricoli, foreste e pascoli valutando inoltre le caratteristiche del suolo. Infine, i ricercatori hanno esaminato i territori non toccati dall’uomo, dove era presente vegetazione primaria o secondaria (il risultato, quest’ultima, della naturale rigenerazione a seguito di un lungo periodo di riposo).

La ricerca ha permesso quindi di valutare l’andamento della presenza di organismi di superficie e del sottosuolo per ciascun habitat osservato.

“Abbiamo scoperto che l’uso del terreno influisce in modo diverso sulle differenti specie”, spiegano gli scienziati. “La presenza di organismi del suolo è risultata nettamente inferiore nei luoghi adibiti a coltivazioni e nelle piantagioni rispetto alla vegetazione primaria e ai pascoli. Le proprietà del terreno hanno influenzato il biota in modi diversi a seconda della destinazione d’uso dell’area, suggerendo come esse influenzino sia la presenza stessa che la risposta alle pratiche di utilizzo”.

Un recupero più lento

Sebbene i risultati non siano realmente sorprendenti, il divario rilevato tra i diversi organismi è risultato superiore alle attese, ha dichiarato Victoria Burton in una nota pubblicata dal Natural History Museum di Londra. “È possibile che queste differenze siano dovute al fatto che alcuni gruppi si trovano meglio in determinati habitat rispetto ad altri”, ha spiegato la ricercatrice. “Speriamo di poter approfondire la questione in futuro osservando la risposta delle differenti specie”.

Uno degli aspetti più rilevanti è costituito dalla diversa velocità di ripresa. Lo scarto tra la presenza degli organismi di superficie e quella dei loro omologhi del sottosuolo è risultato particolarmente evidente anche nella vegetazione secondaria, ovvero in quelle aree abbandonate da tempo dall’uomo.

Il che suggerisce come la ripresa della biodiversità dopo la cessazione dell’impatto umano sia più rapida in superficie che sottoterra. Determinanti, infine, anche i livelli di acidità: nei terreni caratterizzati da maggiore acidificazione si è osservata una differenza più marcata tra la presenza degli organismi del suolo e gli altri.

Servono nuovi modelli di ricerca

Lo studio, insomma, ha evidenziato come la variazione della biodiversità segua ritmi differenti al di sopra e al di sotto della superficie del terreno. Questo aspetto evidenzia quindi la necessità di ulteriori indagini. Ma anche l’importanza di aggiornare metodi e indicatori che sembrano essere eccessivamente sbilanciati. “Gli organismi che vivono nel suolo e nella lettiera fogliare sono molto poco rappresentati negli indicatori e nelle valutazioni dello stato globale della natura”, notano i ricercatori.

“Questo accade nonostante essi costituiscano il 23% delle specie viventi note e forniscano servizi ecosistemici come il ciclo dei nutrienti, la formazione del suolo e la qualità dell’acqua, il cui valore globale è stimato in 2,1 trilioni di dollari all’anno, e rappresentino il secondo più grande bacino di carbonio del Pianeta”.

Di fronte alla necessità di individuare soluzioni al declino della biodiversità, dunque, è opportuno sperimentare un cambiamento di prospettiva anche nella ricerca. “Se ci limitiamo a misurare la risposta ai cambiamenti di animali come uccelli e farfalle, potremmo mettere in atto politiche di ripristino inefficaci o addirittura controproducenti per le specie del suolo frenando così la rigenerazione”, conclude Burton. “Per ripristinare gli ecosistemi, dobbiamo avere invece una visione più ampia di ciò che accade al di sopra e al di sotto del suolo”.