Il monito è del capo degli scienziati della Convenzione Onu per la lotta alla desertificazione (Unccd). In appena 5 anni, sono stati degradati almeno 100 milioni di ettari di terreni sani e produttivi. Un danno alla sicurezza alimentare: 1,3 miliardi di persone esposte direttamente al degrado del suolo
di Emanuele Isonio
“I dati mostrano che il mondo è fuori dalla traiettoria che potrebbe far raggiungere gli obiettivi di contrasto al degrado del suolo. I governi devono quindi smettere di consentire la conversione dei suoli”. A parlare è Barron Joseph Orr, capo scienziato dell’UNCCD, Convenzione Onu per la lotta alla desertificazione. I numeri citati dallo scienziato delle Nazioni Unite sono preoccupanti: in appena 4 anni, tra il 2015 e il 2019 sono andati perduti oltre 100 milioni di ettari di terreni sani e produttivi. E l’accelerazione del degrado del suolo riguarda tutte le regioni del mondo.
Eppure, appena l’anno scorso, 196 Stati mondiali hanno preso parte alla COP sulla desertificazione, impegnandosi a ripristinare 100 miliardi di ettari di territorio entro la fine dell’attuale decennio.
“Quei numeri suggeriscono che dovremo impegnarci a fondo per fermare la conversione dei terreni e per tutelare quei miliardi di ettari oggetto degli impegni degli Stati”, afferma Orr, puntando il dito sui cambi d’uso del suolo – ad esempio la deforestazione – connesso con la produzione di materie prime.
Il degrado di un territorio, inteso come il deterioramento dei suoli e della loro capacità di coltivare, rappresenta una sfida globale. Essa produce un effetto a catena che coinvolge la sicurezza alimentare, la biodiversità e persino il cambiamento climatico, colpendo più duramente le comunità rurali povere.
“Da un lato – sottolinea Orr intervistato da SciDev.Net – i numeri ci avvisano che stiamo andando nella direzione sbagliata. Tuttavia, altri dati ci suggeriscono che invertire la rotta è possibile”. Ovviamente, per farlo occorre trasformare gli impegni in azioni concrete.
Cattiva gestione = degrado
Sono ovviamente molti i fattori contribuiscono al degrado di un suolo. Ma la cattiva gestione o lo sfruttamento eccessivo di territorio contribuiscono in modo determinante perché la crescente domanda di cibo, carburante e materie prime aumenta la pressione sulle risorse naturali.
“Il consumo è il motore alla base di gran parte di ciò che vediamo nel paesaggio” spiega Orr. “Gli abiti che indossiamo oggi probabilmente contribuiscono al degrado del territorio altrove”.
Secondo le analisi Unccd, a livello globale è degradato circa il 40% dei territori. A sperimentare le condizioni peggiori di degrado, secondo l’organismo Onu, sono l’Asia centrale e orientale, l’America Latina e l’area caraibica. E le stesse regioni, oltre all’Africa sub-sahariana, sono anche quelle che hanno sperimentato i tassi più rapidi di degrado.
Ecco perché diffondere, partendo proprio da quei territori, azioni in grado di invertire la rotta è un imperativo, secondo l’Unccd, non più rinviabile. Per fortuna dei “punti positivi” che autorizzano un po’ di ottimismo esistono. Gli investimenti del Global Environment Facility, del Fondo Verde e di una serie di banche multilaterali di sviluppo hanno iniziato a trasformare gli impegni globali in azioni concrete.
L’esempio due volte paradigmatico del Great Green Wall
Orr cita, tra gli esempi più significativi, quello del Great Green Wall africano. La Grande Muraglia Verde in fase di realizzazione che, con i suoi 7600 chilometri, taglierà rasversalmente l’intero continente africano. Una fascia di territorio rigenerato e fertile che argini il Sahara ma sia anche uno strumento per ripensare l’idea di sviluppo, in un’ottica olistica che tenga in conto la stretta connessione tra rischi ambientali e condizioni socio-economiche. Il suo obiettivo è ripristinare 100 milioni di ettari di terreno degradato, sequestrare 250 milioni di tonnellate di carbonio e creare 10 milioni di posti di lavoro verdi entro il 2030.
Un’iniziativa, che trova esempi simili anche nell’Africa meridionale, nel corridoio secco dell’America centrale e in altre parti del mondo, rappresenta anche un buon investimento economico: per ogni dollaro USA impegnato nel massiccio sforzo in favore di suoli e vivibilità, dal Senegal a ovest a Gibuti a est, gli investitori possono aspettarsi un rendimento medio di $1,2, con risultati compresi tra $1,1 USD e $4,4 USD. L’analisi, condotta dalla FAO e pubblicata su Nature Sustainability. ha utilizzato sia dati rilevati sul campo sia informazioni satellitari per tracciare il degrado del suolo nel periodo 2001-2018. Ha quindi confrontato i costi e i benefici del ripristino del suolo sulla base di diversi scenari adattati ai contesti locali.
“Quindi il treno è nella direzione giusta”, afferma Orr. “Ma per dirlo francamente: non è sufficiente. Dobbiamo accelerare la traduzione degli impegni in azioni concrete”. Il caso della Grande Muraglia Verde è nuovamente paradigmatico: l’Unccd ricordava un paio d’anni fa che al momento è stato ripristinato appena il 4% della zona di intervento, pari a 4 milioni di ettari sui 100 previsti.