Il Consiglio Nazionale delle Ricerche lancia un sondaggio nell’ambito di uno studio internazionale sul modo in cui i cittadini notano e valutano i diversi usi dei suoli in montagna. Coinvolti nell’analisi quattro territori delle Alpi
di Emanuele Isonio
I territori montani sono tra i più delicati: fondamentali per i molti servizi ecosistemici che sono in grado di garantire ma sottoposti spesso a pressioni antropiche insostenibili. Che, nel breve, portano ricchezza alle comunità locali ma sottopongono le risorse naturali a impatti negativi sul lungo termine. Tutelare i suoli dell’arco alpino e della dorsale appenninica è quindi essenziale. Ma, per riuscirci, la prima domanda cui rispondere è: qual è la percezione dei cittadini sui cambiamenti d’uso cui sono sottoposti i suoli montani?
5 Paesi coinvolti
A tale quesito cerca di rispondere un’indagine sviluppata da quattro istituti del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Istituto di Geoscienze e Georisorse IGG, Istituto di Ricerca sugli Ecosistemi Terrestri IRET, Istituto sull’Inquinamento Atmosferico IIA e Istituto di Ricerca sulla Crescita Economica Sostenibile IRCRES). Insieme a loro, sono coinvolti anche l’università di Torino, il Parco Nazionale del Gran Paradiso, il Parco Nazionale della Val Grande, l’UNCEM e un gruppo di ricercatori operativi in Francia, Taiwan, Giappone e Stati Uniti. Lo studio CNR infatti è inserito nel progetto internazionale Abreso, che intende verificare quali siano le ricadute che la trasformazione dei terreni da prato/pascolo a bosco/foresta e terreno agricolo (e viceversa) hanno sull’ambiente, sul paesaggio ma anche da un punto di vista economico e sociale.
“Scopo della ricerca è comprendere e confrontare le percezioni sull’uso del suolo nei cinque Paesi coinvolti” spiegano dal CNR. Il progetto segue ovviamente un approccio interdisciplinare e così, accanto alle analisi svolte dal punto di vista geologico e biologico, utilizzando dati satellitari e raccolti su siti di studio, è stato lanciato un sondaggio rivolto a cittadini, residenti, lavoratori e frequentatori delle montagne italiane. Al questionario, della durata approssimativa di circa 10 minuti, si può rispondere, ovviamente in modo anonimo, direttamente online.
La struttura del sondaggio
Il sondaggio è strutturato in diverse sezioni. Prima di tutto, le domande puntano a chiarire le percezioni dell’intervistato sul modo in cui è cambiato l’uso dei suoli nel territorio montano in cui si vive o lavora o soggiorna per un determinato periodo dell’anno. Successivamente le domande hanno come obiettivo di sondare le preferenze per i diversi tipi di uso del suolo (boschi, pascoli selvatici, terreni agricoli, aree edificate) e quale cambiamenti d’uso sono più accettati. Viene poi indagato l’impatto che l’intervistato ritiene possa avere sui terreni montani la destinazione agricola o edilizia. Le ultime domande sono invece dedicate a comprendere il panorama valoriale degli intervistati, per capire che cosa rappresenta la natura e i suoi servizi ecosistemici.
“La gestione del territorio e i cambiamenti socio-culturali creano transizioni che le parti interessate e gli abitanti potrebbero difficilmente comprendere” spiegano i ricercatori. “Tuttavia, questi cambiamenti influenzano le parti interessate e la loro accettazione delle politiche di utilizzo dei diversi suoli e delle strategie di gestione del territorio”. Il tema generale è quello di identificare la relazione tra effetti osservabili e percepiti delle transizioni di uso del suolo sulla zona critica. “Gli effetti osservabili – spiegano ancora i ricercatori – includono i cicli biogeochimici innescati dai cambiamenti nell’uso del suolo e nelle strategie di gestione del territorio. Gli effetti percepiti includono le aspettative delle parti interessate, le preferenze, le percezioni della natura e la valutazione dei servizi e dei disservizi ecosistemici”.
Mezzo secolo di cambi d’uso
Il cambio di destinazione d’uso dei suoli montani è stata alquanto frequente negli ultimi decenni. E non solo per la pressione edilizia legata al turismo e alla “moda” delle seconde case su Alpi ed Appennini. A partire dagli Anni ’60 del Novecento, le tradizionali pratiche dei prati di montagna e della gestione delle colture (pascolo stagionale, produzione di fieno, coltivazioni a terrazze) sono state progressivamente abbandonate nelle pianure e nelle valli. Come conseguenza, boschi e foreste hanno “riconquistato” quei terreni e le aree urbane si sono allargate, aumentando il rischio di contatto tra animali selvatici, bestiame ed esseri umani.
Dal secondo dopoguerra – rilevata un paio d’anni fa l’analisi sulla Bioeconomia delle foreste di Legambiente – ad oggi la superficie forestale nazionale è quasi raddoppiata: oggi conta più di 11 milioni di ettari (erano 5,6 milioni negli Anni ’50). E negli ultimi 30 anni, l’incremento è del 28%. Risultato: oggi il territorio nazionale coperto da boschi ha raggiunto il 38%, un valore superiore ai due paesi considerati amici della foreste, come Germania e Svizzera (fermi al 31%).
La sfida, quindi, è soprattutto saper valorizzare i prodotti che esse possono garantire. Ricordiamo solo un dato: ancora oggi l’80% del legname utilizzato dall’industria italiana è importato dall’estero. Il che ostacola lo sviluppo di una solida filiera bosco-legno tricolore, a minore impatto ambientale.

Copertura forestale – Confronto tra i principali paesi europei e media Ue. FONTE: Fondazione Symbola-Coldiretti-Bonifiche Ferraresi. “Boschi e foreste nel Next Generation Eu” dicembre 2020.
I siti di studio italiani
Per indagare tali fenomeni, i ricercatori italiani hanno individuato tre casi studio. Il primo in Trentino (Val Malene e Brocon), i restanti due in Piemonte (Noaschetta e Val Grande).
Nel sito trentino, distribuito fra i comuni di Cinte Tesino e Pieve Tesino tra 1592 metri e 1730 metri, si pratica da secoli il tradizionale pascolo stagionale, l’alpeggio. Durante il periodo estivo, gli animali vengono spostati dalla pianura per il pascolo a quote comprese tra 1000 e 2300-2500 metri. Mentre i territori pascolati hanno mostrato una sostanziale riduzione negli ultimi decenni, la pratica dell’alpeggio continua in forma ridotta in macchie isolate che circondano i masi di montagna. La gestione del pascolo è curata da contadini che affittano questi terreni dalle autorità locali.
Nelle Alpi occidentali, gli analisti hanno selezionato il Parco Nazionale della Val Grande perché rappresenta la più vasta area selvaggia d’Italia. Al suo interno, sono presenti solo piccoli e radi villaggi. Le tradizionali pratiche agricole e i pascoli terrazzati furono abbandonati dopo la seconda guerra mondiale e da allora la maggior parte di questi pendii è stata colonizzata da foreste. I ricercatori CNR hanno individuato quattro diversi usi del suolo: pascoli abbandonati, pascoli abbandonati occupati da boschi, boschi di Fagus e castagneti.
All’interno del Parco Nazionale del Gran Paradiso la scelta è caduta sulla Val Noaschetta, che si estende tra 1500 e 1900 metri. Un territorio caratterizzato da un elevato grado di marginalità e isolamento. Nei decenni ha subito l’abbandono dei pascoli di montagna seguito da invasioni di alberi e arbusti, che hanno portato a cambiamenti significativi. La conservazione degli spazi aperti in questa valle è importante anche per il turismo paesaggistico. Ecco perché il l’Ente parco ha in programma alcuni interventi di ripristino dei sistemi silvo-pastorali e dei pascoli locali.
Dati satellitari e studi sui cicli di carbonio e azoto
I siti saranno studiati anche attraverso tecniche di osservazione della Terra. I cambiamenti intervenuti a causa dell’abbandono del suolo e dei cambiamenti climatici saranno rilevati attraverso l’analisi di serie storiche di dati satellitari.
I ricercatori svilupperanno inoltre degli algoritmi per il recupero del carbonio organico dei suoli e per l’estrazione della produttività della vegetazione primaria. L’aumento delle temperature, il declino della disponibilità di acqua nel suolo, la riduzione del manto nevoso e il cambiamento dell’uso del suolo saranno considerati come fattori principali che influenzano una serie di proprietà delle zone critiche: il ciclo dei nutrienti, il ciclo idrologico, la qualità e la composizione del suolo, la biodiversità e la produttività delle piante, e i cicli biogeochimici di carbonio e azoto. Lo studio prevede inoltre una procedura di valutazione degli impatti antropici basata su un’analisi spaziale e temporale.