14 Aprile 2023

Il Consiglio Nazionale delle Ricerche lancia un sondaggio nell’ambito di uno studio internazionale sul modo in cui i cittadini notano e valutano i diversi usi dei suoli in montagna. Coinvolti nell’analisi quattro territori delle Alpi

di Emanuele Isonio

 

I territori montani sono tra i più delicati: fondamentali per i molti servizi ecosistemici che sono in grado di garantire ma sottoposti spesso a pressioni antropiche insostenibili. Che, nel breve, portano ricchezza alle comunità locali ma sottopongono le risorse naturali a impatti negativi sul lungo termine. Tutelare i suoli dell’arco alpino e della dorsale appenninica è quindi essenziale. Ma, per riuscirci, la prima domanda cui rispondere è: qual è la percezione dei cittadini sui cambiamenti d’uso cui sono sottoposti i suoli montani?

5 Paesi coinvolti

A tale quesito cerca di rispondere un’indagine sviluppata da quattro istituti del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Istituto di Geoscienze e Georisorse IGG, Istituto di Ricerca sugli Ecosistemi Terrestri IRET, Istituto sull’Inquinamento Atmosferico IIA e Istituto di Ricerca sulla Crescita Economica Sostenibile IRCRES). Insieme a loro, sono coinvolti anche l’università di Torino, il Parco Nazionale del Gran Paradiso, il Parco Nazionale della Val Grande, l’UNCEM e un gruppo di ricercatori operativi in Francia, Taiwan, Giappone e Stati Uniti. Lo studio CNR infatti è inserito nel progetto internazionale Abreso, che intende verificare quali siano le ricadute che la trasformazione dei terreni da prato/pascolo a bosco/foresta e terreno agricolo (e viceversa) hanno sull’ambiente, sul paesaggio ma anche da un punto di vista economico e sociale.

“Scopo della ricerca è comprendere e confrontare le percezioni sull’uso del suolo nei cinque Paesi coinvolti” spiegano dal CNR. Il progetto segue ovviamente un approccio interdisciplinare e così, accanto alle analisi svolte dal punto di vista geologico e biologico, utilizzando dati satellitari e raccolti su siti di studio, è stato lanciato un sondaggio rivolto a cittadini, residenti, lavoratori e frequentatori delle montagne italiane. Al questionario, della durata approssimativa di circa 10 minuti, si può rispondere, ovviamente in modo anonimo, direttamente online.

La struttura del sondaggio

Il sondaggio è strutturato in diverse sezioni. Prima di tutto, le domande puntano a chiarire le percezioni dell’intervistato sul modo in cui è cambiato l’uso dei suoli nel territorio montano in cui si vive o lavora o soggiorna per un determinato periodo dell’anno. Successivamente le domande hanno come obiettivo di sondare le preferenze per i diversi tipi di uso del suolo (boschi, pascoli selvatici, terreni agricoli, aree edificate) e quale cambiamenti d’uso sono più accettati. Viene poi indagato l’impatto che l’intervistato ritiene possa avere sui terreni montani la destinazione agricola o edilizia. Le ultime domande sono invece dedicate a comprendere il panorama valoriale degli intervistati, per capire che cosa rappresenta la natura e i suoi servizi ecosistemici.

“La gestione del territorio e i cambiamenti socio-culturali creano transizioni che le parti interessate e gli abitanti potrebbero difficilmente comprendere” spiegano i ricercatori. “Tuttavia, questi cambiamenti influenzano le parti interessate e la loro accettazione delle politiche di utilizzo dei diversi suoli e delle strategie di gestione del territorio”. Il tema generale è quello di identificare la relazione tra effetti osservabili e percepiti delle transizioni di uso del suolo sulla zona critica. “Gli effetti osservabili – spiegano ancora i ricercatori – includono i cicli biogeochimici innescati dai cambiamenti nell’uso del suolo e nelle strategie di gestione del territorio. Gli effetti percepiti includono le aspettative delle parti interessate, le preferenze, le percezioni della natura e la valutazione dei servizi e dei disservizi ecosistemici”.

Mezzo secolo di cambi d’uso

Il cambio di destinazione d’uso dei suoli montani è stata alquanto frequente negli ultimi decenni. E non solo per la pressione edilizia legata al turismo e alla “moda” delle seconde case su Alpi ed Appennini. A partire dagli Anni ’60 del Novecento, le tradizionali pratiche dei prati di montagna e della gestione delle colture (pascolo stagionale, produzione di fieno, coltivazioni a terrazze) sono state progressivamente abbandonate nelle pianure e nelle valli. Come conseguenza, boschi e foreste hanno “riconquistato” quei terreni e le aree urbane si sono allargate, aumentando il rischio di contatto tra animali selvatici, bestiame ed esseri umani.

Dal secondo dopoguerra – rilevata un paio d’anni fa l’analisi sulla Bioeconomia delle foreste di Legambiente  – ad oggi la superficie forestale nazionale è quasi raddoppiata: oggi conta più di 11 milioni di ettari (erano 5,6 milioni negli Anni ’50). E negli ultimi 30 anni, l’incremento è del 28%. Risultato: oggi il territorio nazionale coperto da boschi ha raggiunto il 38%, un valore superiore ai due paesi considerati amici della foreste, come Germania e Svizzera (fermi al 31%).

La sfida, quindi, è soprattutto saper valorizzare i prodotti che esse possono garantire. Ricordiamo solo un dato: ancora oggi l’80% del legname utilizzato dall’industria italiana è importato dall’estero. Il che ostacola lo sviluppo di una solida filiera bosco-legno tricolore, a minore impatto ambientale.

Copertura forestale - Confronto tra i principali paesi europei e media Ue. FONTE: Fondazione Symbola-Coldiretti-Bonifiche Ferraresi. "Boschi e foreste nel Next Generation Eu" dicembre 2020.

Copertura forestale – Confronto tra i principali paesi europei e media Ue. FONTE: Fondazione Symbola-Coldiretti-Bonifiche Ferraresi. “Boschi e foreste nel Next Generation Eu” dicembre 2020.

I siti di studio italiani

Per indagare tali fenomeni, i ricercatori italiani hanno individuato tre casi studio. Il primo in Trentino (Val Malene e Brocon), i restanti due in Piemonte (Noaschetta e Val Grande).

Nel sito trentino, distribuito fra i comuni di Cinte Tesino e Pieve Tesino tra 1592 metri e 1730 metri, si pratica da secoli il tradizionale pascolo stagionale, l’alpeggio. Durante il periodo estivo, gli animali vengono spostati dalla pianura per il pascolo a quote comprese tra 1000 e 2300-2500 metri. Mentre i territori pascolati hanno mostrato una sostanziale riduzione negli ultimi decenni, la pratica dell’alpeggio continua in forma ridotta in macchie isolate che circondano i masi di montagna. La gestione del pascolo è curata da contadini che affittano questi terreni dalle autorità locali.

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Nelle Alpi occidentali, gli analisti hanno selezionato il Parco Nazionale della Val Grande perché rappresenta la più vasta area selvaggia d’Italia. Al suo interno, sono presenti solo piccoli e radi villaggi. Le tradizionali pratiche agricole e i pascoli terrazzati furono abbandonati dopo la seconda guerra mondiale e da allora la maggior parte di questi pendii è stata colonizzata da foreste. I ricercatori CNR hanno individuato quattro diversi usi del suolo: pascoli abbandonati, pascoli abbandonati occupati da boschi, boschi di Fagus e castagneti.

All’interno del Parco Nazionale del Gran Paradiso la scelta è caduta sulla Val Noaschetta, che si estende tra 1500 e 1900 metri. Un territorio caratterizzato da un elevato grado di marginalità e isolamento. Nei decenni ha subito l’abbandono dei pascoli di montagna seguito da invasioni di alberi e arbusti, che hanno portato a cambiamenti significativi. La conservazione degli spazi aperti in questa valle è importante anche per il turismo paesaggistico. Ecco perché il l’Ente parco ha in programma alcuni interventi di ripristino dei sistemi silvo-pastorali e dei pascoli locali.

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Dati satellitari e studi sui cicli di carbonio e azoto

I siti saranno studiati anche attraverso tecniche di osservazione della Terra. I cambiamenti intervenuti a causa dell’abbandono del suolo e dei cambiamenti climatici saranno rilevati attraverso l’analisi di serie storiche di dati satellitari.

I ricercatori svilupperanno inoltre degli algoritmi per il recupero del carbonio organico dei suoli e per l’estrazione della produttività della vegetazione primaria. L’aumento delle temperature, il declino della disponibilità di acqua nel suolo, la riduzione del manto nevoso e il cambiamento dell’uso del suolo saranno considerati come fattori principali che influenzano una serie di proprietà delle zone critiche: il ciclo dei nutrienti, il ciclo idrologico, la qualità e la composizione del suolo, la biodiversità e la produttività delle piante, e i cicli biogeochimici di carbonio e azoto. Lo studio prevede inoltre una procedura di valutazione degli impatti antropici basata su un’analisi spaziale e temporale.