La vendita e l’uso del Clorpirifos, pesticida organofosfato noto anche come CPS, è stato bandito negli Stati UE dal 2020. Ma l’esportazione della sostanza da parte delle aziende europee verso i Paesi più poveri continua. Un serio rischio per la salute umana. La scoperta è dell’ong svizzera Public Eye
di Emanuele Isonio
All’interno dei confini della UE è stato vietato dal 2020. Troppo alti i pericoli per la salute umana, a partire da quella dei più giovani. Ma, complici alcune lacune normative comunitarie, la sua esportazione è proseguita senza sosta verso Paesi con legislazioni meno attente. Il protagonista di questo “doppio standard” è il clorpirifos, noto anche come Chlorpyrifos o CPS. Un pesticida organofostato molto utilizzato per uccidere parassiti come insetti e vermi.
Le indagini sulle notifiche di esportazione
La scoperta del commercio che, dai Paesi UE continua a proseguire verso il Sud del mondo, è di una ONG svizzera, Public Eye. Sfruttando le leggi sulla libertà di informazione, è riuscita a ottenere dall’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA) tutte le notifiche all’esportazione emesse per i prodotti a base di clorpirifos. Da tali documenti emerge che, nel corso del 2022 le aziende europee produttrici hanno esportate oltre 380 tonnellate di insetticidi contenenti clorpirifos. Quantità che si riferiscono al volume totale dei pesticidi e non al peso netto del clorpirifos all’interno del prodotto. E la situazione non dovrebbe variare nel 2023.
Le destinazioni di quasi tutte le spedizioni erano Paesi a basso o medio reddito. Il perché è presto detto: l’export sfrutta infatti la maggiore permessività delle leggi nazionali di quegli Stati. Primi fra tutti, Algeria, Tunisia, Kazakistan, Bangladesh, Pakistan e Costa Rica.
“Il clorpirifos è vietato nell’UE a causa di fatti comprovati. Ma sembra che questi fatti non si applichino nei paesi a basso reddito”, ha spiegato Fernando Ramírez Muñoz, accademico dell’Istituto centroamericano per gli studi sulle sostanze tossiche, in Costa Rica intervistato da Unearthed, portale britannico di giornalismo investigativo. “Non è giusto che nei Paesi poveri la salute di molti continui a essere compromessa per mantenere gli affari di pochi. In quei Paesi tale sostanza viene utilizzata per la produzione alimentare, come se in questi posti la vita dei bambini esposti al clorpirifos non avesse alcun valore”.
I rischi per la salute
L’Unione europea ha deciso di mettere al bando il clorpirifos ormai 3 anni fa. Decisive sono state non solo le campagne dei gruppi ambientalisti ma anche di diverse organizzazioni sanitarie.
Decenni di ricerche hanno infatti indicato l’esistenza di una correlazione tra l’esposizione al clorpirifos ed “esiti negativi sullo sviluppo neurologico dei bambini”.
Gli studi hanno infatti dimostrano ritardi nello sviluppo, casi di autismo e di riduzione del quoziente intellettivo, tanto più elevata quanto maggiore è stata l’esposizione di una madre alla sostanza chimica durante la gravidanza. E non a caso, il divieto imposto dalla UE stabilisce che debbano essere distrutte eventuali derrate agricole che dai Paesi terzi arrivino entro i confini comunitari. Come è avvenuto, ad esempio, per alcune partite di pomodori coltivati in Turchia e importati in Spagna.
Retirada del mercado de una partida de tomate importado de Turquía, por contener Clorpirifoshttps://t.co/PimfYUpOft pic.twitter.com/geXCYEydah
— Hortoinfo (@Hortoinfo2) April 14, 2023
Come funziona oggi la norma
Ma come fa a proseguire la produzione del clorpirifos all’interno della UE nonostante il divieto? Un divieto di utilizzo nei terreni europei non blocca infatti la possibilità di produrre e vendere la stessa sostanza al di fuori dei confini comunitari. Anche se le prove scientifiche indicano un pericolo concreto per la salute umana o di inquinamento ambientale. Dove l’uso del clorpirifos è consentito, quindi, le aziende europee sono libere di esportarlo.
In base ai dati scovati da Public Eye, il più grande Paese Ue esportatore di clorpirifos risulta essere il Belgio. La filiale belga della multinazionale chimica UPL ha notificato quasi 350 tonnellate di prodotti contenenti la controversa sostanza. Una cifra che supera il 90% di tutte le esportazioni europee. E per il 2023 sono state emesse notifiche per spedire all’estero altre 313 tonnellate.
Per cercare di frenare questo commercio, la Commissione europea ha promesso ormai da tempo di avviare iniziative legislative in modo da porre fine a questa pratica. Tuttavia l’iter non è ancora partito. E, con le elezioni europee programmate per la primavera 2024, il rischio di un nulla di fatto è ogni giorno più concreto. Notizie analoghe arrivano dal Belgio: a dicembre scorso un portavoce del ministero dell’Ambiente aveva annunciato l’intenzione del governo di introdurre il divieto di esportazione del clorpirifos. E lo stesso titolare del dicastero, Zakia Khattabi, aveva commentato che l’attuale situazione “oltre ad essere eticamente insopportabile, porta a a uno squilibrio del mercato e a una concorrenza sleale da parte di Paesi terzi che possono utilizzare determinate sostanze chimiche. C’è in ogni caso un effetto boomerang a spese del consumatore europeo, che si ritrova nel piatto alimenti importati e trattati con queste sostanze nocive”.
Al momento l’unico strumento in vigore su cui possono contare i Paesi importatori del CPS rimane quindi il “previo consenso informato”: il Paese che autorizza l’esportazione della sostanza e l’azienda produttrice devono cioè avvisare i Paesi che la importano l’intenzione di inviare loro pesticidi vietati o che comunque sono soggetti a rigide limitazioni nelle aziende agricole di origine.
Ma il Veneto vuole tornare a usarlo
In realtà, anche dalle nostre latitudini l’importanza del divieto del clorpirifos non trova consenso unanime. Pochi giorni fa, l’assessore all’Agricoltura della Regione Veneto ha ad esempio annunciato l’intenzione di chiedere una deroga al dipartimento Fitosanitario nazionale per utilizzare (seppur “con moderazione” come ha lui stesso specificato) il CPS nei campi agricoli tra giugno e luglio prossimi. Motivazione: il pesticida sarebbe secondo l’esponente politico “l’unica arma non spuntata contro la flavescenza dorata”, una patologia della vite che mette a rischio qualità e quantità di uva prodotte. Alcuni focolai sono stati notati in Valpolicella e Valdobbiadene. Secondo l’assessore “questa pandemia mette a rischio la sopravvivenza stessa della viticoltura”.
Ma, a stretto giro, è stato proprio il consorzio del Prosecco Doc a mettersi di traverso: “La valutazione spetta al ministero della Salute. Non è un argomento politico o agricolo” ha spiegato il presidente del consorzio, Stefano Zanette. E il direttore, Diego Tomasi ha aggiunto: “La strategia di lotta si basa sul corretto uso dei principi attivi esistenti e autorizzati. Stiamo segnalando i vigneti non correttamente gestiti che diventano cassa di espansione dei focolai”.