La denuncia del quotidiano britannico The Guardian: la deforestazione è figlia del contesto economico nazionale e internazionale. Politiche ambientali inefficaci. E il problema riguarda molti Paesi africani
di Matteo Cavallito
Listen to “Carbone di legna e povertà favoriscono la deforestazione in Tanzania” on Spreaker.
Il commercio del carbone di legna, che si ricava dalla combustione dei tronchi e dei rami, alimenta la deforestazione in Tanzania. Un fenomeno favorito a sua volta dalla spinta del mercato nero. Lo racconta il Guardian in un reportage pubblicato nelle scorse settimane.
La persistente povertà che caratterizza il Paese e l’attuale congiuntura economica internazionale, evidenzia il quotidiano britannico, sono tuttora fattori decisivi dietro allo sfruttamento delle risorse forestali. Il 45% dei tanzaniani vive con poco più di due dollari al giorno e il 90% utilizza abitualmente carbone di origine vegetale e legna da ardere per cucinare. L’aumento del prezzo del gas sul mercato internazionale, inoltre, stimola la crescita della domanda e, con essa, l’abbattimento degli alberi.
#Tanzania: Booming #charcoal trade drives unchecked #deforestation
– As rising gas prices drive demand for the polluting fuel, illegal loggers depend on the trade to live – even as the forest disappears around themhttps://t.co/bQlnMJlqSh pic.twitter.com/ne7VmFAAU9
— Environmental Investigation Agency (@EIA_News) December 13, 2022
Carbone e deforestazione: profitti per pochi
La produzione del combustibile rappresenta un’attività particolarmente lucrosa per gli intermediari, principali beneficiari di questo commercio. “I taglialegna possono guadagnare circa 8.500 scellini tanzaniani (circa 3,4 euro, ndr) per un grosso sacco di carbone ceduto ai mediatori, che poi lo vendono ai grossisti realizzando un profitto”, nota il Guardian. “Sono questi ultimi però a guadagnare di più vendendo il sacco a Dar es Salaam, la principale città del Paese, per una cifra che può raggiungere gli 82mila scellini quasi 10 volte il prezzo a cui è stato acquistato”.
A trarre vantaggio da questa attività, inoltre, è lo stesso governo che dallo sfruttamento delle foreste ottiene da tempo un flusso di entrate significativo. “Nel 2019, i guadagni del settore forestale – che comprende il commercio di carbone di legna, legna da ardere, tronchi, pali, miele, semi e piantine – hanno contribuito a circa il 3% al PIL, quota, quest’ultima, della quale il carbone da legna rappresenta il 44%”, rileva ancora il Guardian. “Per questo motivo, il governo concede permessi ai taglialegna e ha fissato obiettivi sul numero di sacchi che ogni area del Paese deve produrre ogni anno”.
Il commercio illegale prospera
Secondo la FAO, ricorda il quotidiano britannico, tra il 2015 e il 2020 la Tanzania ha perso quasi 470mila ettari di foresta all’anno. Global Forest Watch, un progetto dell’organizzazione no profit World Resources Institute di Washington, stima che la copertura arborea complessiva del Paese sia diminuita di 3,82 milioni di ettari dal 2000 al 2020. Un calo pari all’11% del totale. Il governo era intervenuto ufficialmente nel 2006 vietando la produzione e il commercio di carbone di legna. L’operazione, però, è risultata fallimentare: i prezzi sono saliti e il mercato nero è cresciuto. Due settimane più tardi il divieto è stato abolito.
L’espansione del mercato parallelo, con conseguente perdita di entrate per lo Stato, non si è mai fermata. Le autorità locali sono state accusate di condurre pochi controlli sul reale numero delle piante abbattute e la diffusa corruzione contribuirebbe al perpetrarsi delle operazioni illegali.
La situazione della Tanzania trova rilevanti analogie con altri contesti nazionali africani. Tra gli esempi spicca in particolare il caso della Somalia, dove lo scarso accesso all’energia elettrica è compensato proprio dall’ampio utilizzo del carbone di legna. A questo si aggiunge la spinta della domanda proveniente da Paesi esteri: nazioni povere come lo Yemen o ricche come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. La permanente instabilità politica che caratterizza la Somalia fin dal 1991, data di inizio della sanguinosa e mai del tutto conclusa guerra civile, vanifica qualsiasi tentativo di contrasto alle esportazioni, formalmente vietate già nel 1969.
Le politiche ambientali non funzionano
In Africa, scrive il Guardian, la raccolta di legna finalizzata alla produzione di carbone è responsabile di quasi la metà del degrado forestale del continente. Un fenomeno che sembra destinato a trovare conferma anche in futuro. Secondo l’organizzazione non governativa The Charcoal Project, in particolare, la dipendenza di alcuni Paesi africani da questa risorsa – che contribuisce in modo rilevante al gettito fiscale nazionale – finisce per annullare di fatto l’efficacia delle politiche di tutela ambientale.
“I Paesi possono legiferare sull’eliminazione del carbone di legna, ma così facendo creano ulteriori problemi”, scrive l’organizzazione. “La verità è che il consumo di questa risorsa è destinato ad aumentare nei prossimi decenni”.
Fino a quando le nazioni coinvolte da questo commercio non saranno abbastanza ricche da poter avviare una transizione energetica, prosegue la ONG, “l’imposizione di severe restrizioni alla produzione e alla vendita di carbone di legna finirà per colpire solo i produttori e i consumatori favorendo i profitti dei commercianti del mercato nero e di quello semi-legale”.