Una ricerca statunitense apre la strada a indagini più approfondite sul ruolo dei microbi del terreno. Migliorando il sondaggio degli isotopi stabili, gli studiosi hanno evidenziato la “rete alimentare” delle interazioni stimolate dagli stessi microorganismi nel suolo
di Matteo Cavallito
Listen to “Un nuovo metodo di ricerca potrà svelare i segreti dei microbi del suolo” on Spreaker.
Un innovativo metodo di analisi dei microbi potrebbe aprire la strada a nuove conoscenze sulle complesse interazioni che si svolgono continuamente nel suolo. A suggerirlo è una ricerca pubblicata in queste settimane dagli scienziati del Lawrence Livermore National Laboratory, un centro studi con sede in California. Gli autori, coadiuvati dai colleghi del Joint Genome Institute del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti e dell’Università di Berkeley, hanno sviluppato una tecnica che consente un utilizzo più efficace del cosiddetto SIP, o Stable Isotope Probing, il sondaggio degli isotopi stabili.
La nuova versione di questo metodo, spiega una nota del Laboratorio californiano, “automatizza diverse fasi del processo consentendo indagini sull’attività microbica in condizioni realistiche, senza la necessità di colture in laboratorio”.
Una tecnica innovativa
Di norma il metodo SIP si fonda sull’incorporazione degli isotopi nella biomassa microbica. Questa operazione consente ai ricercatori di identificare i microbi attivi in una comunità complessa definendone i tratti fisiologici tra cui la biochimica cellulare, il metabolismo, la crescita e la mortalità. L’analisi avviene però in laboratorio, richiede un’ampia manodopera e permette di trattare solo un numero ridotto di campioni.
Gli scienziati della LLNL, riferisce ancora la nota, hanno apportato importanti innovazioni al metodo, riducendo sensibilmente il lavoro manuale necessario e arrivando a processare 16 campioni contemporaneamente.
“Il nostro approccio semi-automatico riduce il tempo dell’operatore e migliora la riproducibilità, concentrandosi sulle fasi più laboriose del SIP”, ha dichiarato Erin Nuccio, co-autrice e coordinatrice della ricerca. “Abbiamo utilizzato questo approccio per elaborare oltre mille campioni, compresi alcuni provenienti da microhabitat del suolo molto poco studiati”.
Nuove prospettive
Secondo gli autori, la tecnica consente di studiare più efficacemente le attività dinamiche delle comunità microbiche. A evidenziarlo sono gli stessi risultati dello studio che si è concentrato sulla micorrizosfera che ospita i funghi micorrizici arbuscolari o AMF. Questi particolari microbi, osservava in passato una ricerca dell’Università dell’Indiana, interagiscono con le piante garantendo loro una maggiore capacità di stoccaggio del carbonio.
I funghi individuati dai ricercatori, si legge nello studio, “evidenziano il potenziale di interazioni trofiche tra diversi regni nell’ifosfera dei funghi AMF, tra cui la predazione, la decomposizione della necromassa fungina o dei detriti vegetali e l’ossidazione dell’ammoniaca arcaica che può utilizzare l’ammonio o la CO2 rilasciata dai suddetti processi”.
Grazie alla combinazione del nuovo metodo con altre discipline come la metatrascrittomica, che studia l’espressione genica dei microbi, e la proteomica, che fornisce informazioni essenziali sulle proteine, sarà possibile ottenere “un’importante risorsa genomica per futuri esperimenti di esplorazione delle interazioni tra le strutture filamentose dei funghi micorrizici arbuscolari e il loro microbioma nativo”.
Microbi e carbonio
Le AMF, ricordano i ricercatori, formano relazioni simbiotiche con il 72% di tutte le piante terrestri. In cambio del carbonio proveniente da quest’ultime, il fungo fornisce risorse essenziali come azoto, fosforo e acqua. Lo studio ha permesso quindi di evidenziare la “rete alimentare” delle interazioni stimolate dagli stessi microorganismi nel suolo.
Il ruolo dei microbi nel ciclo del carbonio è da tempo oggetto di diversi studi.
Nel gennaio del 2021, ad esempio, i ricercatori dell’Università del Massachusetts Amherst hanno rivelato come la diversità microbica favorisca la crescita dell’efficienza d’uso del carbonio, ovvero il saldo tra l’ammontare assimilato da funghi e batteri e quello disperso nell’atmosfera
L’indagine, spiega Jennifer Pett-Ridge, una delle co-autrici, mostra “una delle principali vie di distribuzione del carbonio vegetale nel suolo”. Proprio il terreno “detiene il più grande bacino di carbonio organico in ciclo attivo del Pianeta”. E lo studio, che si basa sul sequenziamento di “una minuscola quantità di DNA”, ha “identificato gli organismi attivi per poi ricostruirne i genomi e le potenziali interazioni”. L’applicazione delle tecniche utilizzate apre ora la strada a nuove ricerche.