19 Maggio 2021

Ricerca dell’università di Melbourne: azoto essenziale ma attenzione al potenziale negativo. La soluzione? Tecniche agricole responsabili e incentivi economici per aziende e cittadini

di Matteo Cavallito

 

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L’azoto? Prezioso ed essenziale per le colture. Ma anche pericoloso per l’ambiente. È infatti, notoriamente, “una delle principali cause di inquinamento in tutto il mondo”. Proprio per questo, il suo uso in agricoltura deve essere accompagnato da soluzioni sostenibili con l’obiettivo di bilanciarne effetti positivi e dannosi. Lo sostiene, nel dettaglio, uno studio guidato da Xia Liang, membro dell’American Society of Agronomy e ricercatrice agricola presso l’Università di Melbourne. L’indagine fornisce un quadro che misura accuratamente la perdita di azoto in un’ampia varietà di colture e prodotti alimentari. Un fenomeno, è bene ricordarlo, legato anche al massiccio impiego dei fertilizzanti che contengono il medesimo elemento.

Identificando gli impatti ambientali e i costi sociali delle perdite stesse, sostiene la Liang, diventa quindi possibile “informare i consumatori, i produttori e i decisori politici”. Con l’obiettivo di rendere i sistemi agricoli di tutto il mondo più sostenibili, meno inquinanti e più redditizi.

Azoto: alla ricerca di un equilibrio

Per valutare la dimensione del problema occorre considerare due aspetti: la perdita complessiva e il dato relativo, ovvero l’intensità, calcolata come la dispersione per unità di cibo o di azoto prodotto. I cereali, nota ad esempio lo studio, “hanno una bassa intensità di perdita ma un’alta dispersione totale perché sono coltivati in grandi quantità”. La carne di bufalo, al contrario, produce molta dispersione per unità ma con un basso impatto in termini assoluti a causa della piccola quantità prodotta.

L’indagine ha portato alla costruzione di un database che include 115 prodotti agricoli e 11 zootecnici su scala globale. Il bestiame – manzo in primis sul fronte dell’intensità di perdita, seguito da agnello, maiale e altri – svetta nella classifica del contributo all’inquinamento da azoto davanti a riso, grano, mais e soia. “La perdita più bassa per gli 11 prodotti di allevamento supera quella dei sostituti vegetali”, spiega la Liang. “Questo conferma l’importanza del cambiamento della dieta per ridurre la perdita di azoto attraverso i consumi”.

Smog e clima, doppio allarme

L’attenzione per gli effetti negativi della dispersione di azoto sta crescendo visibilmente negli ultimi anni. Non sorprende, ad esempio, che la Commissione europea stia elaborando schemi di incentivazione delle pratiche agricole sostenibili capaci di prendere in considerazione “la contabilizzazione dell’intero bilancio dei gas serra”. Ovvero includendo quindi non solo la CO2 ma anche il metano e il protossido di azoto. I danni della perdita, per altro, sono noti: dall’impatto sul suolo a quello sull’acqua, passando per gli effetti nocivi per piante e animali fino al contributo allo smog e al cambiamento climatico.

Le soluzioni disponibili, ricorda la ricerca, sono complesse e “includono migliori tecnologie e pratiche di fertilizzazione”. Diventa fondamentale, in questo senso, “usare il giusto fertilizzante nella giusta quantità, al momento giusto e nel posto giusto”.

Anche i consumatori devono fare la loro parte

Per garantire un risultato soddisfacente, in ogni caso, è necessario fornire incentivi alle migliori pratiche di gestione che comprendano “la riduzione del rischio di degrado ed erosione del suolo e l’uso eccessivo di fertilizzanti”. Decisivi, infine, anche i comportamenti individuali che chiamano in causa le scelte dei consumatori attraverso, ad esempio, la riduzione del consumo di carne e dei rifiuti alimentari. Anche se la strada, verrebbe da pensare, sembra essere in questo senso ancora lunga. “Quando compriamo una lavatrice o un’auto, possiamo scegliere un prodotto più efficiente dal punto di vista idrico ed energetico”, conclude la Liang. “Tuttavia, nonostante il crescente riconoscimento del peso dell’azoto nella produzione e nel consumo di cibo sostenibile, non seguiamo un’idea simile per gli alimenti che mangiamo”.