Nelle settimane scorsa il proprietario del brand della moda statunitense ha annunciato di aver ceduto la proprietà della sua azienda a una no-profit ambientale. Obiettivo: usare tutti gli utili per il Pianeta. Ma iniziano a emergere alcuni dubbi sulla decisione. Non solo per la futura governance di Patagonia ma anche per la fumosità su quali esperti e quali dati saranno usati per pianificare le azioni pro ambiente
di Emanuele Isonio
L’eco mediatica è stata senza dubbio enorme: non capita spesso la notizia di un miliardario, proprietario di una delle più famose corporation mondiali della moda, che decide di regalare le proprie azioni. Per di più, donandole a una no profit con l’obiettivo di sfruttarne gli utili per “curare il Pianeta”.
Comprensibile quindi che la scelta di Yvon Chouinard, proprietario di Patagonia, abbia fatto rapidamente il giro del mondo, conquistando milioni di “like” e cuoricini sulle piattaforme social. “Non ho mai voluto essere un uomo d’affari” ha spiegato l’ottantatreenne imprenditore in una lettera aperta che ha spiegato la sua decisione aziendale. In effetti, l’ex scalatore professionista originario del Maine, aveva da tempo in mente di trovare la via migliore per collegare profitti e le cause ambientali di cui Patagonia si è da tempo fatta paladina.
Hey, friends, we just gave our company to planet Earth. OK, it’s more nuanced than that, but we’re closed today to celebrate this new plan to save our one and only home. We’ll be back online tomorrow.https://t.co/fvRFDgOzVZ
— Patagonia (@patagonia) September 14, 2022
Il “dilemma” di Chouinard
“Un’opzione era quella di vendere Patagonia e donare tutti i soldi” racconta l’imprenditore. “Ma non potevamo avere la certezza che la nuova proprietà avrebbe tenuto fede ai nostri princìpi e avrebbe continuato a lavorare con i nostri colleghi e le nostre colleghe nel mondo. Un’altra strada era quella della quotazione in borsa. Ma che disastro sarebbe stato. Anche società quotate con le migliori intenzioni sono messe sotto pressione per generare profitti nel breve periodo, a discapito della responsabilità nel lungo periodo. A dire il vero, abbiamo capito che non c’erano opzioni valide. Così abbiamo deciso di creare la nostra”.
Chouinard ha quindi optato per cedere tutte le quote a un’associazione. La scelta è caduta sulla Holdfast Collective, “un’associazione non profit che si dedica a combattere la crisi ambientale e a difendere la natura”.
Tutto bene? La fame di buone notizie farebbe sperare di sì. Ma spesso sono i dettagli a fare la differenza. E man mano sono emersi nella stampa statunitense.
Il nuovo assetto azionario
Fortune ha ad esempio fatto notare che l’affermazione di Chouinard secondo cui “la Terra è ora l’unico azionista dell’azienda” è una sintesi eccessivamente altruistica. Ricostruendo l’assetto finanziario futuro, la rivista ricorda che la Holdfast Collective ottiene il 98% delle azioni totali. E ogni anno dovrebbe ricevere un dividendo di circa 100 milioni di dollari. Il restante 2% andrà al Patagonia Purpose Trust. A guidare quest’ultimo, sarà sempre la famiglia Chouinard e i membri del CdA da loro direttamente scelti. E sarà questo piccolo pacchetto azionario a detenere tutti i diritti di voto. Ciò significa che sarà il Trust ad avere il 100% della supervisione aziendale e a decidere quindi quali iniziative saranno realizzate effettivamente.
Da qui i dubbi che riguardano il passato di Patagonia e la sostanziale assenza di informazioni sulle attività che faranno seguito all’operazione.
I dubbi sulle passate iniziative di Patagonia
“Patagonia non ha sempre mantenuto le sue promesse di sostenibilità” scrive ad esempio la rivista statunitense New Republic” . “L’esclusiva del New York Times (“Billionaire No More: Il fondatore di Patagonia cede l’azienda“) ha definito la mossa di Chouinard “una svolta non convenzionale del capitalismo”. L’articolo tuttavia, prosegue la rivista “non menziona nessuna delle iniziative passate di Patagonia che sono state recentemente sottoposte a un esame per aver ingannato i consumatori con affermazioni sulla sostenibilità”.
Il riferimento corre all’iniziativa sviluppata dall’azienda nel 2009 in collaborazione con il colosso della grande distribuzione Walmart che aveva portato allo sviluppo di un discusso database: l’Higg Materials Sustainability Index. “I critici dell’Higg MSI sostengono che sia stato creato per far apparire più ecologica la produzione di combustibili fossili per l’industria della moda, che dipende da fibre sintetiche a basso costo, consentendo enormi profitti e nascondendo i veri costi ambientali dei prodotti”. L’Higg MSI, in particolare, “classifica il poliestere, una fibra derivata dal petrolio, come la più sostenibile di tutte le fibre”. Un’affermazione controversa che va a tutto vantaggio delle aziende del settore visto che “il poliestere è anche la fibra più economica disponibile”.
Quali criteri e consulenti?
Preoccupante, poi, è la mancanza di dettagli sull’operazione Patagonia Purpose Trust. “Chi gestirà questo trust?”, si chiede New Republic. “Avrà esperti scientifici a libro paga? Quali esperti? Quali dati saranno utilizzati per decidere come combattere il cambiamento climatico? E cosa farà il Trust di fronte alle prove schiaccianti che la crescita economica sta portando alla distruzione dell’ambiente?”. In assenza di risposte “ci rimane solo un pezzo di P.R. che promuove un futuro capitalista a spese di tutti noi, dalle comunità climatiche in prima linea agli operai delle fabbriche che lavorano sui modelli in poliestere, lontano dalla vista dei miliardari”.
700 milioni di tasse evitate
C’è poi un’altra questione. Magari più prosaica ma certamente non secondaria: le tasse evitate. A sottolinearlo in questo caso è Bloomberg. La soluzione azionaria scelta per il futuro di Patagonia (il cui valore si aggira attorno a 3 miliardi di dollari) ha permesso di pagare ai suoi proprietari solo qualche decina di milioni di tasse – ricorda la testata economico-finanziaria – invece dei $700 milioni. Questo perché le imposte sono state calcolate solo sul 2% dell’azienda donato al Patagonia Trust e non sul rimanente 98% ceduto alla Collective (in favore delle no-profit esistono, non solo negli USA, ampie esenzioni di natura fiscale). Cosa che non sarebbe successo se l’azienda fosse stata venduta sul libero mercato. Nè se Yvon l’avesse lasciata in eredità ai propri eredi.