29 Marzo 2023

L’azione di recupero delle torbiere danneggiate dall’attività umana è cruciale per raggiungere la neutralità climatica. Ma, benché importante, il ripristino non riesce a riportarle alle condizioni naturali. Lo conferma un’analisi pubblicata su Nature

di Emanuele Isonio

 

Le attività umane che drenano o sfruttano le torbiere, intaccando la loro salubrità, sono responsabili del 5-10% delle emissioni annue globali di CO2 di origine antropica. Facile capire quanto l’attività di ripristino di questi ambienti, caratterizzati da grande abbondanza di acqua in movimento lento, diventi prioritario fra le azioni per mitigare i cambiamenti climatici. Gli scienziati calcolano infatti che, per rispettare l’accordo di Parigi sul clima e raggiungere la neutralità del carbonio entro il 2050-2070, bisogna riuscire a ripristinare non meno di 500mila chilometri quadrati di torbiere prosciugate (più o meno l’estensione della Spagna).

La distribuzione delle torbiere in Europa. FONTE: JRC Commissione Europea.

La distribuzione delle torbiere in Europa. FONTE: JRC Commissione Europea.

Biodiversità a rischio

Ma, nonostante gli sforzi, non tutti i servizi ecosistemici delle torbiere verrebbero comunque riattivati. La conferma arriva da un’analisi pubblicata nelle settimane scorse su Nature da due docenti delle università del Texas e di Exeter. Gli autori hanno passato in rassegna tutta la letteratura recente sulla risposta delle torbiere sottoposte a ripristino dopo che incendi, siccità, inondazioni e sfruttamento umano le avevano degradate.

“I siti degradati – si legge nello studio – possono generalmente essere ripristinati in un modo che consenta il sequestro netto del carbonio. Tuttavia, la biodiversità, il regime idrologico e la struttura del suolo torboso non sono sempre completamente ripristinati, anche dopo un decennio di sforzi di ripristino, indebolendo potenzialmente la resilienza dell’ecosistema a disturbi futuri”.

Una constatazione che porta a sottolineare quanto sia importante evitare ulteriori perdite di torbiere incontaminate, oltre a individuare nuovi metodi e strumenti di conoscenza e monitoraggio dei sistemi delle torbiere, in modo da superare l’attuale difficoltà di ripristinare completamente tutte le funzioni dei loro ecosistemi.

Reumidificare è diverso che preservare

A sostegno delle loro riflessioni, i due autori hanno ad esempio ricordato uno studio condotto nel 2021 da diversi docenti dell’università tedesca di Greifswald. La ricerca aveva confrontato 320 siti paludosi reumidati con 243 siti quasi naturali di origine simile provenienti dalle principali regioni torbiere paludose d’Europa.

La loro analisi aveva portato a scoprire che, in oltre la metà dei siti considerati, la reumidificazione delle torbiere prosciugate aveva indotto l’insediamento di alte piante graminoidi nelle zone umide, senza alcuna tendenza al ritorno alla loro ex biodiversità ed ecosistemi funzionanti. Un fatto non da poco: una maggiore biodiversità migliora infatti la resilienza degli ecosistemi e alcuni tipi di piante – come il muschio del tipo Sphagnum – sono considerati dei veri e propri “ingegneri dell’ecosistema”, capaci ad esempio di trattenere circa 20 volte il loro peso secco in acqua, resistendo così durante i periodi di siccità.

Mappa delle torbiere recuperate (aree rosse) studiate e comparate con quelle naturali (aree blu). FONTE: Rewetting does not return drained fen peatlands to their old selves, 2021.

Mappa delle torbiere recuperate (aree rosse) studiate e comparate con quelle naturali (aree blu). FONTE: Rewetting does not return drained fen peatlands to their old selves, 2021.

Il caso canadese…

Ma lo studio pubblicato su Nature si concentra anche sull’analisi di due casi di successo di siti di torbiere ripristinati post degradazione. Per entrambi, i ricercatori hanno misurato il sequestro netto di carbonio post ripristino. Il primo dei due casi fa riferimento alle torbiere canadesi, che per decenni erano state drenate e scavate per ricavarne torba da utilizzare in agricoltura e in giardinaggio. Il secondo è dedicato alle torbiere scozzesi, pesantemente prosciugate per far spazio a piantagioni di conifere, sorte a seguito dei forti incentivi governativi a inizio degli Anni 80 del Novecento.

Nel caso canadese, per il ripristino erano stati trasferiti strati di muschio Sfagno Acutifolia. La sua reintroduzione ha dimostrato che la copertura con questo vegetale – che tra l’altro può essere ristabilita in meno di cinque anni – ha il maggior potenziale per ristabilire la resilienza delle torbiere grazie alla sua capacità di ritenzione dell’umidità. Lo sfagno ripristina inoltre più rapidamente la funzione di accumulo di carbonio degli ecosistemi torbieri ripristinati e di resistenza agli incendi, che nel corso degli anni succcessivi, avevano colpito una parte della torbiera.

…e quello scozzese

Per quanto riguarda le torbiere scozzesi, i progetti di restauro sono partiti dagli Anni 90: 14 anni di monitoraggio del ripristino della vasta distesa di torbiera nel nord del Paese, nota come Flow Country, hanno evidenziato un ripristino delle condizioni di umidità. Al contrario, il pieno recupero della vegetazione ha riguardato solo le aree più umide della palude e non le porzioni più secche.

Nel complesso, il ripristino delle torbiere scozzesi ha restituito a questi ecosistemi la funzione di assorbimento del carbonio. Attualmente, il 63% delle torbiere coperte, il 60% delle torbiere alte e il 72% delle paludi e acquitrini sono in condizioni considerate favorevoli. “Tuttavia – scrivono gli autori – la microtopografia della superficie della torba e la diversità funzionale delle piante non sono state completamente ristabilite, il che mette in dubbio la futura resilienza di questi sistemi ai cambiamenti climatici, in particolare quando si tratta della loro capacità di far fronte alle fluttuazioni della variabilità della falda freatica, comprese le inondazioni e siccità”.

Più in generale, gli autori della ricerca sottolineano che le torbiere recuperate saranno in ogni caso meno preparate alle conseguenze del climate change: “Nel complesso, si prevede che i cambiamenti climatici avranno impatti più profondi sul bilancio del carbonio delle torbiere nei siti ripristinati a causa dei cambiamenti negli attributi dell’ecosistema e dei processi che non conferiscono più lo stesso grado di resilienza ecologica”.

Come funzionano le torbiere?

Gli ecosistemi delle torbiere sono zone umide costituite da residui vegetali parzialmente decomposti e materia organica che si accumulano nel corso dei millenni per formare suoli ricchi di carbonio, chiamati torba, che possono raggiungere diversi metri di spessore. Questi ecosistemi sono impregnati d’acqua, il che significa che i loro suoli sono permanentemente bagnati. Una caratteristica che rallenta drasticamente la decomposizione del suolo. Il ristagno crea infatti condizioni anossiche, che rallentano drasticamente la decomposizione microbica della lettiera vegetale e della materia organica. Nelle regioni fredde, le basse temperature del suolo favoriscono la formazione della torba rallentandone ulteriormente il decadimento. Ai tropici, la decomposizione è invece rallentata dalla recalcitranza della materia organica e dall’elevata umidità del suolo.

Nonostante le torbiere coprano appena il 3% della superficie terrestre, si stima che a livello globale lo stock di carbonio contenuto all’interno dei loro suolo si aggiri attorno alle 600 gigatonnellate. Tuttavia, il cambiamento climatico e le pressioni antropogeniche possono portare a rapide perdite di questi depositi di carbonio nel suolo. Risultato: alcune torbiere potrebbero diventare presto fonti di emissioni nette di carbonio nell’atmosfera. E, anche a livello planetario, il bilancio di carbonio delle torbiere potrebbe passare da serbatoio a fonte netta entro il 2100.