Marmolada, il ghiacciaio più grande delle Dolomiti sparirà entro il 2040
I risultati delle analisi di Legambiente: il ghiacciaio ha perso 70 ettari in cinque anni ed è arretrato di 1200 metri dal 1888. Il processo di fusione sta accelerando. Servono risposte urgenti, a partire da una governance sostenibile del territorio
di Emanuele Isonio
È arretrato di 1200 metri dal 1888, con un innalzamento della quota della fronte di 3500 metri. Solo negli ultimi cinque anni ha perso 70 ettari di superficie (da 170 a 98). Un po’ come dire: 98 campi da calcio. Sono i dati relativi al ghiacciaio della Marmolada, il più grande delle Dolomiti. Di questo passo, entro il 2040 non esisterà più.
A fotografare una situazione che allarma climatologi e glaciologi è la quinta edizione della Carovana dei ghiacciai, la campagna nazionale di Legambiente in collaborazione con CIPRA Italia (Commissione internazionale per la protezione delle Alpi) e con la partnership scientifica del Comitato Glaciologico Italiano.

Il monitoraggio del Ghiacciaio della Marmolada realizzato dalla Carovana dei Ghiacciai ha cadenza biennale. FOTO: Legambiente.
Ma la Marmolada non è il solo ghiacciaio prossimo all’estinzione. La stessa sorte attende anche gli altri due ghiacciai più grandi delle Alpi: quello dell’Adamello, tra Lombardia e Trentino. E il ghiacciaio dei Forni, in Lombardia. Tutti e tre sono collocati sotto i 3500 metri e sono caratterizzati da perdite di spessore importanti. Misure sulle condizioni superficiali dei ghiacciai indicano che il ghiacciaio della Marmolada e dei Forni hanno picchi di perdita di spessore a breve termine rispettivamente di 7 e 10 cm al giorno. Per il ghiacciaio dell’Adamello le misurazioni a lungo termine rilevano che la perdita di spessore derivata dalla fusione glaciale permette di camminare oggi sul ghiaccio derivato dalle nevicate degli anni ‘80 del secolo scorso.
Un “deserto di roccia bianca”
Per quanto riguarda il particolare la Marmolada, il monitoraggio dei ricercatori della “Carovana” ha ormai cadenza biennale. I dati mostrano un ghiacciaio in forte sofferenza:
se 136 anni fa si estendeva per circa 500 ettari, ed era grande come 700 campi da calcio, dal 1888 ha registrato una perdita areale superiore all’80% e una perdita volumetrica superiore al 94%. Nel 2024 lo spessore massimo è di 34 metri.

Dal 1888 il Ghiacciaio della Marmolada ha registrato una perdita volumetrica superiore al 94%. FOTO: Carovana dei Ghiacciai 2024.
L’accelerata della fusione del ghiaccio ad alta quota sta lasciando il posto ad un deserto di roccia bianca, levigata da quello che un tempo era il grande gigante bianco, e prendono vita nuovi ecosistemi.
“Le Alpi sono un luogo fondamentale a livello nazionale ed europeo, ma sono anche sempre più fragili a causa della crisi climatica che avanza. Il ghiacciaio della Marmolada – spiega Vanda Bonardo, presidente di CIPRA Italia – ne è un esempio importante. La Carovana dei ghiacciai racconta la sofferenza di un ghiacciaio morente, segnato da un’accelerazione del processo di fusione che ha numeri impressionanti e che richiede risposte urgenti a partire da una governance sostenibile del territorio”.
Ripercussioni a valle
Le indagini relative allo stato di salute dei ghiacciai non hanno ovviamente solo un interesse ambientale circoscritto alle condizioni climatiche in alta quota. Le ripercussioni a valle sono rilevanti: si registrano effetti atmosferici locali, modifica delle temperature regionali, maggiore precarietà geologica dei luoghi, aumento del rischio frane e impatto sulle infrastrutture costiere e sulla disponibilità d’acqua per irrigare i terreni agricoli.
“I dati glaciologici sulla Marmolada rendono questo ghiacciaio emblematico per la sofferenza di tutti i ghiacciai alpini”, afferma Valter Maggi, presidente del Comitato Glaciologico Italiano. “Si tratta di un corpo glaciale scarsamente alimentato che soffre a causa della pressione climatica e antropica. Le trasformazioni ambientali si stanno ripercuotendo su questo ambiente glaciale e dobbiamo tenerne conto sia per i ghiacciai sia per le aree circostanti”.
La conoscenza fornita dalla ricerca scientifica, da sola, ovviamente non può cambiare le cose. È fondamentale accompagnarla con “politiche di adattamento e di mitigazione, e da interventi su scala nazionale e locale, coinvolgendo anche le comunità locali” osserva Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente. “Per questo riteniamo sempre più urgente l’attuazione, accanto alle politiche di mitigazione, di un efficace piano di adattamento nazionale alla crisi climatica, a partire dalle zone più vulnerabili, come l’alta montagna”.

Legambiente
Patrick Domke / ETH Zurich, per uso non commerciale
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