Il nuovo rapporto annuale ISPRA: la cementificazione del territorio accelera. Nel 2021, il tasso più elevato dell’ultimo decennio. Superata la soglia dei 2 metri quadri al secondo: quasi 70 kmq di nuove coperture artificiali. Stimati in 8 miliardi di euro l’anno i costi economici nascosti. Ma intanto la crisi di governo ha bloccato ancora una volta i progetti di legge in discussione in Parlamento
di Emanuele Isonio
C’è un’altra vittima illustre dello scioglimento delle Camere causato dalla crisi di governo: ancora una volta, la speranza di vedere approvata una legge che fermi il consumo di suolo in Italia dovrà essere rimandata alla prossima legislatura. Il grido d’allarme che da anni arriva dagli addetti ai lavori rimane quindi lettera morta. Nel nostro Paese, l’impermeabilizzazione e la cementificazione ha superato, nel corso del 2021, i 2 metri quadri al secondo. In appena 12 mesi, con una media di 19 ettari al giorno, le coperture artificiali hanno raggiunto la cifra monstre di 70 chilometri quadrati. Il valore più alto negli ultimi dieci anni. Rappresentano ormai il 7,13% della superficie nazionale a fronte di una media Ue del 4,2%. E se si considerasse solo la porzione di territorio teoricamente disponibile e idonea ai diversi usi, la percentuale supererebbe addirittura il 10%.
A rivelarlo è il nuovo rapporto “Consumo di suolo. Dinamiche territoriali e servizi ecosistemici” realizzato come di consueto dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale) e presentato oggi a Roma.
Gli edifici coprono un’area grande come la Liguria
Il risultato di questo processo senza sosta ha fatto sì che il cemento ricopra ormai 21.500 kmq di territorio. Di questi, 5.400, riguardano i soli edifici che rappresentano il 25% dell’intero suolo consumato. Una cifra, pari all’intera superficie della Liguria.
“Il monitoraggio di quest’anno conferma la criticità del consumo di suolo nelle zone periurbane e urbane” si legge nel rapporto. In esse, “si rileva un continuo e significativo incremento delle superfici artificiali, con un aumento della densità del costruito a scapito delle aree agricole e naturali, unitamente alla criticità delle aree nell’intorno del sistema infrastrutturale, più frammentate e oggetto di interventi di artificializzazione a causa della loro maggiore accessibilità e anche per la crescente pressione dovuta alla richiesta di spazi sempre più ampi per la logistica“.
L’urbanizzazione crescono nonostante la crisi demografica
I cambiamenti rilevati nell’ultimo anno si concentrano in alcune aree del Paese. Il fenomeno rimane ad esempio molto intenso nelle zone di pianura, lungo le coste e nelle principali fasce metropolitane. “La maggior densità dei cambiamenti è stata registrata quest’anno entro un chilometro dal mare e nelle città e nelle zone urbane e periurbane dei principali poli e dei comuni di cintura”. Le zone cioè più attraenti per gli appetiti speculatori (non a caso sono quelle con i valori immobiliari più elevati).
A farne le spese, sono principalmente suoli precedentemente destinati ad agricoltura e vegetazione, anche in ambito urbano. “I dati confermano l’avanzare di fenomeni quali la diffusione, la dispersione, la decentralizzazione urbana da un lato e, dall’altro, la densificazione di aree urbane, che causa la perdita di superfici naturali all’interno delle nostre città, superfici preziose per assicurare l’adattamento ai cambiamenti climatici in atto”. E infatti, oltre il 70% delle trasformazioni nazionali si concentra nelle aree cittadine. Vengono così cancellati proprio quei suoli candidati alla rigenerazione.
Peraltro, come già facevano notare i rapporti degli anni precedenti i processi di urbanizzazione e infrastrutturazione non ha ormai nessun legame diretto con le dinamiche della popolazione. Le superfici artificiali infatti stanno crescendo nonostante i cittadini residenti siano ormai stabili e, anzi, in molti casi addirittura in decrescita. Non a caso, a causa della flessione demografica, il suolo consumato pro capite aumenta in un anno di 3,46 metri quadri, passando da 359 a 363 mq per abitante. Erano 349 m2/ab nel 2012.
4 milioni di quintali di prodotti agricoli persi
Tutto questo ha ovviamente un costo più o meno nascosto. Rendere infatti il suolo impermeabile vuol dire esporre i territori all’aumento degli allagamenti, delle ondate di calore, alla perdita di aree verdi, di biodiversità e dei servizi ecosistemici. Tra questi, produzione agricola e di legname, stoccaggio di carbonio, controllo dell’erosione, impollinazione, regolazione del microclima, rimozione del particolato, regolazione del ciclo idrologico, disponibilità e purificazione dell’acqua. Vantaggi per pochi, disagi (e danni economici) per molti, dunque: ISPRA stima tali costi in quasi 8 miliardi di euro l’anno. “Una somma che potrebbe incidere in maniera significativa sulle possibilità di ripresa del nostro Paese” avvisano gli estensori del rapporto.
“Le aree perse in Italia dal 2012 – denuncia ISPRA – avrebbero garantito la fornitura di oltre 4 milioni di quintali di prodotti agricoli. Avrebbero permesso l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua piovana che, invece, scorrendo in superficie, non sono più disponibili per ricaricare le falde e aggravano la pericolosità idraulica dei territori”. Nello stesso periodo, la perdita della capacità di stoccaggio del carbonio di queste aree (oltre tre milioni di tonnellate) equivale, in termini di emissione di CO2, a quanto emetterebbero più di un milione di autovetture con una percorrenza media di 11.200 km l’anno tra il 2012 e il 2020: un totale di oltre 90 miliardi di chilometri percorsi, più di 2 milioni di volte il giro della terra.
Roma, capitale della cementificazione
A livello regionale, la Valle d’Aosta fa segnare il consumo inferiore, ma aggiunge comunque più di 10 ettari alla sua superficie impermeabilizzata. Lla Liguria è riuscita a contenere il nuovo consumo di suolo al di sotto dei 50 ettari. Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Molise, Basilicata e Calabria si mantengono sotto ai 100 ettari. Gli incrementi maggiori sono avvenuti in Lombardia (con 883 ettari in più), Veneto (+684 ettari), Emilia-Romagna (+658), Piemonte (+630) e Puglia (+499).
Per quanto riguarda i dati delle città, Roma conferma la tendenza già fatta registare negli anni scorsi. Anche quest’anno, la Capitale consuma più suolo di tutte le altre città italiane: in 12 mesi perde altri 95 ettari di suolo. A preoccupare sono però molti altri capoluoghi di regione: Venezia ha perso l’anno scorso altri 24 ettari di suolo, Milano 19, Napoli 18, Perugia 13 e L’Aquila 12.
Logistica e pannelli fotovoltaici
Un capitolo a parte merita la logistica. Nel 2021 sono stati destinati alla realizzazione di nuovi poli logistici 323 ettari, anche in aree a pericolosità idrogeologica elevata. Più del 60% di essi si concentrano nel Nord-Est (105 ettari) e nel Nord-Ovest (89 ettari).

FONTE: Rapporto “Consumo di suolo. Dinamiche territoriali e servizi ecosistemici”. ISPRA 2022
Altro aspetto segnalato nel dossier ISPRA riguarda l’installazione di impianti fotovoltaici a terra. Occupano oltre 17.500 ettari di suolo, in modo particolare in Puglia (6.123 ettari, circa il 35% di tutti gli impianti nazionali), in Emilia-Romagna (1.872) e nel Lazio (1.483). “Gli scenari futuri previsti per la transizione ecologica prevedono un importante aumento nei prossimi anni di questa tipologia di consumo, stimato in oltre 50mila ettari, circa 8 volte il consumo di suolo annuale”.
Eppure, una soluzione alternativa sarebbe vantaggiosa sia per la salubrità dei suoli sia per le esigenze energetiche nazionali. Come? Sfruttando gli edifici e i fabbricati già esistenti. “È stata stimata una superficie potenzialmente disponibile per l’installazione di impianti fotovoltaici sui tetti compresa tra 75mila e 99mila ettari” calcolano i tecnici ISPRA. Un numero “sufficiente ad ospitare nuovi impianti fotovoltaici per una potenza complessiva compresa tra 70 e 92 GW, capace di coprire l’aumento di energia rinnovabile complessiva previsto dal Piano per la Transizione Ecologica al 2030″.