Una bustina di tè racconta il sequestro di carbonio nelle zone umide
Un insolito esperimento svela l’impatto del clima sulla capacità di cattura del carbonio nelle aree umide del Pianeta. Nelle zone di acqua dolce e nelle paludi di marea il maggiore potenziale di sequestro
di Matteo Cavallito
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Il cambiamento climatico impatta sulla capacità delle zone umide di conservare il carbonio. Comprendere quali di queste aree siano maggiormente soggette al fenomeno, tuttavia, non è sempre facile. A fornire una risposta, però, potrebbe essere oggi uno strumento piuttosto insolito: una bustina di tè. O, per meglio dire, 19mila esemplari della suddetta.
A tanto, infatti, ammonta il numero di questi insoliti rilevatori collocati in 180 aree paludose di 28 Paesi diversi con l’obiettivo di misurare la capacità di sequestro dell’elemento da parte del terreno. Un’iniziativa di un gruppo di scienziati e volontari guidato dai ricercatori di quattro diverse università le cui scoperte sono state raccolte in uno studio pubblicato su Environmental Science & Technology, la rivista dell’American Chemical Society.

Lo studio ha interessato 180 aree in 28 Paesi del mondo in rappresentanza di diversi ecosistemi. Immagine: Environ. Sci. Technol. 2024, 58, 49, 21589–21603, Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International CC BY-NC-ND 4.0 Deed
Lo studio
“Si tratta del primo studio a lungo termine di questo tipo che utilizza il metodo delle bustine di tè per aiutarci a capire come massimizzare lo stoccaggio del carbonio nelle zone umide e contribuire a ridurre le emissioni a livello globale”, ha spiegato in una nota Stacey Trevathan-Tackett, ricercatrice del Royal Melbourne Institute of Technology e co-autrice dello studio. “I cambiamenti nei pozzi di assorbimento del carbonio possono influenzare in modo significativo il riscaldamento globale: minore decomposizione significa più carbonio immagazzinato nel suolo e meno carbonio nell’atmosfera”.
Nel dettaglio, gli scienziati hanno interrato decine di migliaia di bustine a circa 15 cm di profondità nei diversi siti individuati raccogliendole a vari intervalli di tempo nell’arco di tre anni.
In seguito hanno misurato la massa organica residua per valutare l’ammontare di carbonio che si era conservato nelle zone umide. Il progetto ha utilizzato i due tipi di tè – verde e rooibos – per rappresentare in modo adeguato diversi tipi di materia organica nel suolo. Il tè verde si decompone facilmente, mentre il degrado del rooibos richiede più tempo. Valutando il comportamento di entrambi i composti è stato possibile tracciare un quadro più preciso della capacità di stoccaggio delle differenti zone umide.
Nelle zone di acqua dolce e nelle paludi di marea il potenziale maggiore di sequestro
In generale, hanno spiegato gli autori, le temperature più calde hanno portato a un maggiore decadimento della materia organica con conseguente minore conservazione del carbonio nel suolo. Per il rooibos ciò è avvenuto puntualmente mentre le bustine di tè verde si sono decomposte a velocità diverse a seconda del tipo di zona umida: più rapidamente nelle zone d’acqua dolce e più lentamente nelle aree caratterizzate dalla presenza di mangrovie e di piante spermatofite.
“Le zone umide d’acqua dolce e le paludi di marea presentano la più alta massa di tè rimanente, indicando un maggiore potenziale di conservazione del carbonio in questi ecosistemi”, spiega lo studio.
Inoltre “la decomposizione della materia organica recalcitrante è aumentata con il rialzo della temperatura per tutto il periodo di decomposizione: a un innalzamento compreso tra 10 a 20 °C, ad esempio, è corrisposto a un incremento di 1,46 volte nella velocità del processo”. Infine, l’aumento delle temperature potrebbe anche contribuire a far aumentare la produzione e l’immagazzinamento del carbonio nelle piante, contribuendo così a compensare le perdite dell’elemento dovute al clima più caldo nelle zone umide. Un aspetto, quest’ultimo, che dovrà ancora essere approfondito in futuro.
Il ruolo delle aree umide
Secondo gli autori i risultati dello studio contribuiscono a fornire indicazioni sulle dinamiche di sequestro di carbonio nelle zone umide su scala globale. “L’applicazione di una metrica comune agli ecosistemi acquatici, palustri, marini e terrestri consente un confronto concettuale e la comprensione dei fattori chiave coinvolti nel controllo del turnover globale del carbonio”, ha dichiarato Ika Djukic, ricercatrice dello Swiss Federal Institute for Forest.
L’obiettivo dei ricercatori è quello di combinare i dati emersi con quelli provenienti da altri studi per elaborare modelli predittivi globali sul sequestro di carbonio. Si tratta di strumenti essenziali nello studio del fenomeno in questi ambienti minacciati dalle attività umane, come la deforestazione, e dagli effetti del cambiamento climatico antropogenico, a cominciare dall’innalzamento del livello del mare.

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Patrick Domke / ETH Zurich, per uso non commerciale
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