Secondo una ricerca brasiliana, il prezioso black soil presente in alcune zone dell’Amazzonia conserva caratteristiche peculiari che favoriscono il rapido recupero dei terreni disboscati
di Matteo Cavallito
Ascolta “Nella terra nera il segreto per la rigenerazione dell’Amazzonia” su Spreaker.
La terra nera dell’Amazzonia, ovvero quel particolare tipo di suolo presente in alcune aree della foresta e celebre per la sua fertilità, potrebbe rivelarsi particolarmente utile nelle operazioni di ripristino delle aree disboscate. Lo suggerisce una ricerca realizzata dall’Università di São Paulo in collaborazione con due enti di ricerca governativi: la Empresa Brasileira de Pesquisa Agropecuária (Embrapa) del Ministero dell’agricoltura brasiliano e l’Instituto Nacional de Pesquisas da Amazônia Research del Ministero della scienza, della tecnologia e dell’innovazione.
“La deforestazione di aree destinate all’agricoltura e all’allevamento è la principale causa di degrado ecologico e di perdita di biodiversità”, si legge nello studio pubblicato sulla rivista Frontiers in Soil Science. “La soluzione per mitigare questi danni si basa su tecniche che migliorano la salute del suolo e la qualità microbica di queste aree degradate. In questo lavoro dimostriamo che l’elevato contenuto di nutrienti e microbi delle terre scure amazzoniche (Amazonian Dark Earths, ADE) può favorire lo sviluppo di alberi da utilizzare in progetti di ripristino ecologico”.
Il black soil dell’Amazzonia
Conosciuto come terra preta (“suolo nero” in italiano), questo particolare tipo di terreno è presente, sebbene in quantità ridotta, in alcuni luoghi dell’Amazzonia caratterizzati da una precedente presenza umana. La terra nera locale fa parte della macro categoria dei cosiddetti black soils, conosciuti per la loro proverbiale fertilità e presenti in varie zone del mondo dall’Ucraina, dove questo tipo di terreno ricopre oltre il 65% della terra arabile del Paese, alle province cinesi di Heilongjiang, Jilin e Liaoning che da sole contribuiscono alla produzione del 50% del riso, del 41% della soia e del 34% del mais della nazione.
Secondo il rapporto “The Global Status of Black Soils”, pubblicato alla fine dello scorso anno dalla FAO, i sedimenti di terra preta, in base alle ipotesi più solide fondate sulle evidenze pedologiche e archeologiche, “si sono formati in maniera non intenzionale dalle società amerindie precolombiane nel bacino amazzonico”. Il loro contenuto è ricco di materia organica, risultato della decomposizione di cenere, terracotta, ossa di animali e altri scarti.
L’esperimento
I ricercatori hanno riempito 36 vasi con 3 chili di terreno e li hanno collocati in una serra a una temperatura media di 34 gradi centigradi simulando, ricorda la ONG statunitense Mongabay, le condizioni delle aree deforestate dell’Amazzonia nello scenario del cambiamento climatico. Un terzo dei vasi ha ospitato terreno normale, altrettanti contenitori una miscela con un contenuto di terra nera al 20%. I restanti 12 vasi contenevano esclusivamente il black soil.
“Abbiamo simulato la conversione da pascolo ad area di ripristino forestale piantando semi di Urochloa brizantha (un’erba tipica delle zone destinate al bestiame, ndr) in tutti i vasi”, spiegano gli autori nella ricerca. “Dopo 60 giorni l’abbiamo rimossa per impiantare altre specie come Cecropia pachystachya, Peltophorum dubium e Cedrela fissilis”.
Dopo 90 giorni totali di crescita, gli scienziati hanno misurato l’evoluzione delle radici delle piantine oltre ad analizzare le proprietà chimiche e la diversità microbica del suolo. La presenza di terra nera aveva fatto aumentare in alcuni casi anche di otto volte la crescita. “La miscela al 20% e quella al 100% hanno evidenziato numeri di crescita simili e significativamente superiori a quelli rilevati nel suolo di controllo”, precisa la ricerca.
Una risorsa per l’Amazzonia
Secondo gli autori la terra nera si sarebbe dimostrata “un acceleratore dello sviluppo delle piante e dell’arricchimento del microbiota utile nella rizosfera”. I ricercatori, di conseguenza, ritengono che i dati raccolti “potrebbero contribuire a velocizzare i programmi di ripristino forestale adottando nuovi approcci biotecnologici per questo scopo”. La disponibilità di black soil in Brasile non sembra sufficiente per un uso ad ampio raggio nel processo di ripristino.
Ma lo studio delle sue proprietà potrebbe consentire agli scienziati di creare in futuro altri prodotti organici capaci di replicarne le caratteristiche. E, di conseguenza, di accelerare il recupero delle aree disboscate.
La scoperta, nel frattempo, assume un’importanza significativa per l’Amazzonia che, ricorda Mongabay, tra il 1985 e il 2022 ha perso il 12% della sua estensione con la scomparsa di circa 44 milioni di ettari di vegetazione nativa. Secondo i dati dell’organizzazione no-profit brasiliana Imazon, nel 2019 il processo di rigenerazione – considerando esclusivamente i fenomeni attivi da almeno sei anni – interessava 7,2 milioni di ettari.