Il livello del mare sale. Una minaccia per il carbonio delle zone umide
L’ascesa del livello del mare mette a rischio la capacità di stoccaggio del carbonio alterando la presenza dei microbi e la vegetazione, osservano i ricercatori americani
di Matteo Cavallito
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Le aree umide costiere – tra cui paludi e foreste di mangrovie – hanno un’estensione limitata ma conservano ugualmente quasi la metà di tutto il carbonio presente nei sedimenti oceanici. L’innalzamento del livello del mare, però, mette a rischio questo fondamentale servizio di mitigazione. Un pericolo ampiamente noto ai ricercatori della University of Southern California che, da qualche tempo, stanno studiando le dinamiche che si verificano nelle paludi della Upper Newport Bay Ecological Reserve, un estuario situato nella contea di Orange, nella parte meridionale dello Stato.
L’obiettivo? “Sviluppare metodi per prevedere e mitigare la perdita di carbonio, valutarne la quantità a rischio e identificare tecniche di ripristino per garantire la cattura e lo stoccaggio del carbonio anche nel prossimo secolo”, spiega David Bañuelas, coordinatore della ricerca citato in un articolo dello stesso ateneo statunitense.

Previsioni sull’innalzamento dei mari. Nella tabella sono presentate le ipotesi basate sull’osservazione e su cinque scenari predittivi relativi sia al livello medio globale del mare sia al livello dei mari contigui agli Stati Uniti. La variazione del livello medio è espressa in metri. FONTE: The Sea Level Rise Technical Report 2022 – NASA, NOAA, EPA, FEMA, Dipartimento Difesa, Dipartimento Sicurezza interna.
Il sale mette in pericolo il ciclo del carbonio
Ad assumere un ruolo determinante sono i microorganismi del suolo che, in queste aree, assorbono la CO2 e la convertono in materia organica che viene messa a disposizione di altri esseri viventi nella catena alimentare. Al processo contribuisce anche la vegetazione che cattura l’anidride carbonica dall’atmosfera e la sequestra nel suolo. Il problema, però, è che l’innalzamento del livello del mare determina l’intrusione di acqua salata alterando la presenza dei microbi e rendendo l’ambiente inadatto a ospitare le piante.
“Sappiamo che in un periodo compreso tra 50 e 100 anni la maggioranza delle paludi salmastre si trasformerà in distese di fango, che sono in realtà fonti di emissioni di carbonio”, ha spiegato Bañuelas. “Senza vegetazione, gran parte del carbonio che altrimenti sarebbe stato immagazzinato verrà rilasciato nuovamente nell’atmosfera”.
Per comprendere cosa possa accadere nello scenario futuro, gli studiosi hanno iniziato a raccogliere campioni d’acqua nella palude per studiarne la chimica e identificarne i microbi. Le analisi in laboratorio, nel dettaglio, permetterebbero di decodificare i dati genomici dei microorganismi per comprenderne le capacità di elaborazione del carbonio. L’idea è quella di prevedere la distribuzione dei microbi in base alle previsioni di salinità anticipando e rispondendo agli impatti dei cambiamenti climatici.
Creare modelli predittivi
Elaborando modelli predittivi, proseguono gli autori, dovrebbe essere quindi possibile quantificare il bilancio del carbonio tra l’oceano e le zone umide costiere. Ispirando così decisioni razionali per la tutela degli ecosistemi vitali. I risultati potrebbero essere utili nella valutazione di dinamiche analoghe nei sistemi costieri marini e in quelli degli estuari a livello globale.
Gli stessi ricercatori stanno conducendo peraltro studi simili nel Golfo del Messico, intorno al fiume Mississippi, così come nell’area del delta del fiume Atchafalaya, in Louisiana.
L’importanza dei sistemi di previsione è nota da tempo. Così come la rilevanza delle zone umide nella tutela della biodiversità e del sequestro del carbonio. Due servizi che vengono svolti efficacemente non solo nelle aree costiere e che sono oggi sempre più a rischio. Di recente, uno studio , pubblicato sulla rivista Nature Communications, ha coinvolto studiosi del Pacific Northwest National Laboratory (PNNL), del Lawrence Berkeley National Laboratory e dell’Università del Michigan, ad esempio, ha spiegato come il cambiamento climatico cancellerà parte delle zone umide nordamericane e ne sconvolgerà i regimi stagionali.
Aree costiere, un problema globale
Per quanto riguarda le zone costiere, in particolare, molta attenzione negli ultimi anni si è concentrata sul peculiare ecosistema delle mangrovie. Secondo le stime della Ong Global Mangrove Alliance, nel mondo gli esemplari di questa pianta sarebbero in grado di prevenire emissioni totali per oltre 21 miliardi di tonnellate di CO2. La loro presenza, però, è ancora a rischio. Le attività umane, come la deforestazione, e gli effetti del cambiamento climatico antropogenico, a cominciare dall’innalzamento del livello del mare, infatti, impattano notevolmente.
Tra il 1980 e il 2000, ha spiegato il think tank statunitense One Earth, il mondo ha perso il 35% circa delle sue mangrovie. Nel XXI secolo la situazione è migliorata ma non abbastanza. Sempre secondo la Global Mangrove Alliance, tra il 1996 e il 2016 la presenza di questi alberi si è ridotta ulteriormente del 4,3% nel Pianeta.

Foto: Nandaro Attribution-ShareAlike 3.0 Unported CC BY-SA 3.0 Deed
Patrick Domke / ETH Zurich, per uso non commerciale
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