17 Febbraio 2023

L’accusa di Global Canopy: 201 delle 500 aziende e società finanziarie più esposte alla deforestazione non hanno preso alcuna iniziativa per risolvere il problema. Male le imprese ma le istituzioni finanziarie fanno ancora peggio

di Matteo Cavallito

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Oltre un terzo delle imprese e delle società finanziarie che contribuiscono maggiormente alla deforestazione non ha ancora elaborato un piano per ridurre il proprio impatto sul fenomeno. Lo sostiene l’ultimo rapporto della Ong Global Canopy. Lo studio, che ha preso in esame le iniziative delle 350 aziende e delle 150 istituzioni finanziarie più esposte al problema attraverso le loro catene di approvvigionamento e i loro investimenti ha tracciato un quadro preoccupante.

Nessuno dei soggetti esaminati ha eliminato il proprio contributo al disboscamento, “e il 40% (201 tra aziende e istituzioni finanziarie) non ha definito alcuna politica sulla deforestazione”, spiegano gli autori. Che aggiungono: “Porre fine al fenomeno è essenziale per raggiungere gli obiettivi globali urgenti sul clima, la natura e i diritti umani“. La distruzione degli ecosistemi “ha un impatto sulle temperature globali, sulle emissioni, sulla biodiversità, sulle precipitazioni, sullo spostamento delle comunità e sulla sicurezza alimentare”.

Meno di un’impresa su tre impegnata su tutte le materie prime

Condotta ormai da 9 anni, l’indagine conosciuta come Global Canopy’s Forest 500 si è concentrata su mezzo migliaio di soggetti valutandone politiche e iniziative concrete. L’ultima edizione dello studio mostra come 100 delle 350 aziende monitorate abbiano assunto un impegno di deforestazione per tutte le materie prime acquistate e processate lungo la catena di fornitura. Altre 141 (il 40% del totale) hanno reso noto un piano per contrastare il disboscamento ma solo per una parte delle risorse a più alto rischio forestale a cui sono esposte.

Al tempo stesso, spiega la ricerca, “38 aziende incluse nella Forest 500 ogni anno dal 2014 non hanno preso alcun impegno in materia di deforestazione”.

L’impegno varia a seconda del settore. Quasi 3 compagnie su 4 hanno assunto iniziative per non contribuire alla deforestazione nel settore dell’olio di palma; oltre la metà ha avviato iniziative analoghe nei comparti del legname e della carta. Contemporaneamente, “Solo il 28% delle aziende del pellame (20 su 71) e solo il 30% di quelle della carne bovina hanno agito per fermare la deforestazione”. Non va particolarmente meglio per la soia, “con meno della metà delle aziende – 83 su 192, il 43% – impegnatesi attivamente”.

Dalle banche un sostegno forte alla deforestazione

La situazione appare ancora più problematica per le istituzioni finanziarie osservate che, a oggi, forniscono 6,1 trilioni di dollari di finanziamenti alle aziende delle catene di approvvigionamento a rischio forestale. Delle 150 società osservate, “Solo 16 (11%) hanno assunto iniziative di contrasto per tutte e quattro le materie prime valutate”. Al tempo stesso, “il 39% (58 istituzioni finanziarie) ha almeno una politica di deforestazione per una qualsiasi delle risorse”.

Infine, “92 (61%) delle istituzioni finanziarie più esposte alla deforestazione non hanno una politica anti-disboscamento in merito a prestiti e investimenti”. Queste ultime, rileva lo studio, “hanno fornito 3.600 miliardi di dollari di sostegno alle aziende con la più alta esposizione al rischio di deforestazione”.

La ricerca offre un’ulteriore conferma a un quadro generale problematico. Nei mesi scorsi, un’indagine a cura della Ong Forests & Finance, ha evidenziato come dalla firma dell’Accordo di Parigi nel 2015, le principali banche del Pianeta abbiano erogato 267 miliardi di dollari di crediti ad appena 300 aziende produttrici di materie prime a rischio deforestazione che operano nelle tre maggiori regioni tropicali del mondo.

L’impatto sui diritti umani

La mancanza, parziale o totale, di impegno nel contrasto alla deforestazione, spiegano ancora i ricercatori di Global Canopy, “è spesso inestricabilmente legata alle violazioni dei diritti umani“. Il disboscamento alimentato dalla crescente domanda di materie prime, infatti, “può portare a conflitti tra le aziende e le comunità espropriate”. In questo quadro, purtroppo, “l’azione sulle violazioni associate alla deforestazione è un fallimento su tutta la linea”.

Lo studio, in particolare, ha elaborato nuovi indicatori come, ad esempio, il rispetto delle prerogative delle comunità storicamente presenti sul territorio e la capacità di contrasto alle minacce e alla violenza nei confronti degli attivisti ambientali.

L’analisi “ha riscontrato che le aziende non sono al passo con le migliori pratiche di tutela nelle catene di approvvigionamento. Dopo l’inserimento dei nuovi indicatori il loro punteggio medio sui diritti umani è sceso di 7 punti percentuali“. Anche le aziende impegnate nella difesa dei diritti fondamentali in altri comparti non sembrano in grado di agire adeguatamente contro le violazioni di questi ultimi legate alla deforestazione, conclude lo studio.