La crisi delle foreste può far raddoppiare i costi climatici
È l’ipotesi dei ricercatori del Potsdam Institute. I modelli attuali sovrastimano le potenzialità di mitigazione delle foreste. In questo contesto un’azione ritardata potrebbe rendere irraggiungibili gli obiettivi di Parigi
di Matteo Cavallito
In assenza di azioni opportune, il degrado delle foreste – un aspetto tuttora sottovalutato – finirà per compromettere il raggiungimento degli obiettivi climatici. Ritardare gli interventi, per contro, significa invece affrontare un forte aumento dei costi economici, politici e ambientali. Lo sostiene un nuovo studio pubblicato su Nature Communications.
“La riduzione delle emissioni di CO2 prevista dall’Accordo di Parigi dipende in larga misura dal potenziamento dello stoccaggio e del sequestro del carbonio nelle foreste a livello globale”, spiega l’indagine condotta dai ricercatori del Potsdam Institute for Climate Impact Research (PIK). “Eppure, la crescente vulnerabilità del carbonio forestale ai cambiamenti climatici e all’intervento umano è spesso trascurata nelle attuali strategie di mitigazione”.
Foreste sempre più fragili
L’ecosistema terrestre nel suo complesso è grado di sequestrare ogni anno 13 miliardi di tonnellate di CO2, sottraendo così dall’atmosfera circa un terzo di tutte le emissioni antropogeniche del Pianeta. Non è un caso, quindi, che a oggi “qualsiasi obiettivo di stabilizzazione climatica concepito si basi sulla continuità di tale servizio di rimozione”. Le foreste, da sole, “accumulano la maggior parte dell’elemento sequestrato in questo modo, pari a due terzi del totale ovvero a 7,8 miliardi di tonnellate di anidride carbonica all’anno”.
Gli ecosistemi forestali, tuttavia, “sono vulnerabili ai cambiamenti ambientali e alle attività umane dirette, come la deforestazione e il degrado che rendono incerta la permanenza del carbonio in essi immagazzinato”.
L’integrità di questi ambienti, insomma, è sempre più minacciata da eventi naturali – come incendi, malattie, siccità e infestazioni – esacerbati dal riscaldamento globale, nonché da pressioni antropiche come la deforestazione. Eppure, i modelli su cui si basano le strategie climatiche mondiali spesso ignorano questi fattori o li sottostimano gravemente. La ricerca, di conseguenza, ha voluto indagare l’impatto di questa sottovalutazione valutando inoltre “le conseguenze di un’azione posticipata per comprendere l’importanza di proiezioni più accurate sul carbonio forestale per la politica climatica”.
Un nuovo modello
Secondo gli autori, in particolare, i modelli attualmente usati per elaborare politiche climatiche commettono tre errori: sottovalutano gli eventi naturali ostili, sovrastimano la crescita delle piante indotta dai fertilizzanti e infine ipotizzano, sbagliando, che vi sia una “perfetta efficienza nella sostituzione dei terreni forestali con l’agricoltura” ignorando il fatto che, in molti casi, il suolo disboscato resti in realtà inutilizzato per anni.
Per tenere adeguatamente conto di tutti questi fattori, gli scienziati hanno quindi combinato due modelli per simulare il sistema energetico globale, l’economia, l’uso del terreno e la crescita delle foreste. Inoltre, hanno ipotizzato diversi livelli di disturbo “forestale”.
In questo modo, gli autori hanno analizzato 54 scenari diversi per simulare le risposte dei decisori a diverse situazioni di degrado forestale calcolando il costo di un intervento non tempestivo. Secondo le loro stime, anche un ritardo di soli 5 anni nella reazione alla perdita di carbonio dalle foreste farebbe raddoppiare i costi delle politiche di mitigazione.
Rimandare? Costa il doppio
Il motivo, rilevano i ricercatori, è evidente: le risposte tardive comportano tagli alle emissioni e investimenti in tecnologie di rimozione del carbonio più onerosi nel confronto con quelli associati a un intervento immediato anche in presenza di disturbi più impattanti. Nello spazio di un quinquennio, ad esempio, l’inazione farebbe crescere il fabbisogno di terra per interventi di mitigazione (come riforestazione o bioenergia) di circa 149 milioni di ettari, un’area più grande dell’intera Unione Europea.
Emblematico, poi, l’impatto sul carbon market. “L’adozione di un’azione immediata e lungimirante sulla perdita di carbonio delle foreste comporta un aumento del 22% del prezzo dei crediti di emissione nel 2030 e una perdita in termini di Pil che raggiungerà il suo massimo nel 2050 a quota -2,4%”, spiegano gli scienziati. Una risposta lenta, invece, determinerà un aumento di prezzo del 48% e una perdita di valore economico del 2,7%”. Una risposta lenta, in altre parole, “implica costantemente costi doppi indipendentemente dal grado di disturbo”.
Quattro strategie
“In questo momento, le nostre strategie climatiche scommettono sul fatto che le foreste non solo rimangano intatte ma finiscano addirittura per espandersi”, ha spiegato in una nota Michael Windisch, ricercatore e co-autore dello studio. “Tuttavia, con l’intensificarsi degli incendi – come accade ad esempio in California – e la continua deforestazione in Amazzonia, questa ipotesi rappresenta un azzardo. Mentre il cambiamento climatico stesso mette a rischio le immense riserve di carbonio delle foreste”.
Per evitare il fallimento delle politiche gli autori raccomandano ai decisori di perseguire quattro strategie:
- un monitoraggio costante delle foreste;
- un aggiornamento dei modelli climatici;
- azioni immediate di conservazione e interventi di decarbonizzazione in altri settori;
- un uso prudente della riforestazione che, quando non ben pianificata, rischia di far aumentare l’esposizione a futuri disturbi.
“Dobbiamo agire immediatamente per salvaguardare il carbonio immagazzinato”, prosegue Windisch. “ In caso contrario, compensarne le perdite potenziali attraverso i tagli alle emissioni in settori chiave come l’energia, l’industria e i trasporti costituirà un obiettivo sempre più costoso e, forse, anche irraggiungibile”.

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