Le radici delle piante potrebbero ospitare più carbonio del previsto in profondità
Uno studio americano rileva l’esistenza di un secondo strato di radici sviluppato da diverse piante e spesso ignorato. Che favorisce un sequestro aggiuntivo dell’elemento
di Matteo Cavallito
Nell’estendersi in profondità nel terreno per assorbire nutrienti e acqua dal suolo molte piante sviluppano un secondo strato di radici accedendo a ulteriori risorse. È la scoperta di un gruppo di ricercatori americani provenienti dall’Università di Stanford e da altre istituzioni tra cui il Boston College, la Columbia University, il Dartmouth College e il Center for Tree Science di Lisle, Illinois.
Nel loro recente studio, pubblicato sulla rivista Nature Communications, gli autori sostengono inoltre che le piante, di conseguenza, potrebbero anche trasportare e immagazzinare carbonio più in profondità di quanto si pensasse finora. Con implicazioni positive per gli obiettivi di mitigazione climatica.
Una comprensione limitata delle radici
Le piante, ovviamente, sono chiamate a soddisfare il loro fabbisogno di nutrienti ma al tempo stesso contribuiscono a sostenere il ruolo di serbatoio di carbonio del suolo. Al centro di questo equilibrio, ricorda lo studio, ci sono proprio le radici. Ma la comprensione delle dinamiche che le riguardano, spiegano i ricercatori, non è stata finora del tutto efficace.
“Studi recenti hanno notevolmente migliorato la nostra comprensione delle radici delle piante attraverso l’analisi dei loro ‘tratti’, che spaziano da caratteristiche morfologiche come il diametro radicale alle relazioni simbiotiche come la colonizzazione dei funghi micorrizici, anche grazie alla crescente disponibilità di banche dati armonizzate e accessibili pubblicamente sui tratti radicali», spiega l’indagine.
Tuttavia, proseguono gli studiosi, “questi dati riflettono per lo più proprietà su scala microscopica di singoli segmenti radicali come, ad esempio, il diametro delle radici e la concentrazione di azoto”. Mentre “una comprensione a livello di intero sistema all’interno della matrice del suolo è ancora molto limitata, cosa che incide sulla nostra capacità di estendere le misurazioni locali basate sui tratti a proprietà osservabili su scala ecosistemica”.
La scoperta del secondo strato
Il gruppo di ricerca ha utilizzato i dati del National Ecological Observatory Network (NEON) provenienti da 44 siti statunitensi collocati in diverse zone climatiche e differenti tipi di ecosistema, dalla tundra dell’Alaska alle foreste pluviali di Porto Rico. In questi luoghi i campioni sono stati prelevati fino a due metri sotto la superficie, cioè ben più in basso rispetto a quanto avviene con le più comuni ricerche ecologiche che non si spingono oltre i 30 cm. A questa profondità insolita i ricercatori hanno rilevato una distribuzione “bimodale”.
Ovvero due picchi distinti di biomassa fina lungo il profilo del suolo che presentavano una concentrazione radicale significativa: un secondo “picco” di radici, insomma.
Sviluppatosi in risposta ad alcune condizioni favorevoli presenti in profondità, come la maggiore presenza di azoto o di acqua, questo strato ulteriore rivela dinamiche di crescita precedentemente sconosciute e, al tempo stesso, piuttosto diffuse. La presenza della distribuzione bimodale, infatti, è stata osservata in ben 9 dei siti monitorati dal NEON, vale a dire nel 20% circa del totale, senza un legame apparente con le condizioni geografiche dei luoghi.

According to the study, 9 out of 44 (~20%) sites in the NEON dataset have bimodal root distributions. Image: Lu, M., Wang, S., Malhotra, A. et al. A continental scale analysis reveals widespread root bimodality. Nat Commun 16, 5281 (2025). https://doi.org/10.1038/s41467-025-60055-2 Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International CC BY-NC-ND 4.0 Deed
In futuro dovremo guardare sempre di più nel sottosuolo
Le implicazioni della ricerca sono evidenti. “Capire dove le piante sviluppano le radici è fondamentale, poiché esse garantirebbero uno stoccaggio del carbonio più sicuro e duraturo in profondità, dove la presenza di condizioni più estreme, infatti, potrebbe impedire ai microbi detritivori di rilasciare nuovamente il carbonio nell’atmosfera”, ha spiegato in una nota Mingzhen Lu, professore della New York University oltre che ricercatore dell’Università di Stanford e principale autore dello studio.
Che aggiunge: “La buona notizia è che le piante starebbero forse già contribuendo in modo naturale alla mitigazione del cambiamento climatico più attivamente di quanto abbiamo finora compreso e che a noi basterebbe solo scavare più a fondo per comprenderne appieno il potenziale”.
Per far ciò, in ogni caso, sarà necessario concentrare l’attenzione sulle dinamiche che avvengono nel sottosuolo e che spesso tendono a essere ignorate dai nostri sistemi di osservazione. “Scienziati e decisori”, conclude Lu, “devono guardare più in profondità sotto la superficie terrestre, poiché questi strati di suolo, spesso trascurati, potrebbero contenere elementi fondamentali per comprendere e gestire gli ecosistemi di fronte a un clima che cambia rapidamente”.

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Patrick Domke / ETH Zurich, per uso non commerciale
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